La finestra sulla piazza

Seduto davanti al caminetto, sulla mensola del quale troneggiava da sempre un’enorme sveglia a scandire un tempo che in quella piccola stanza sembrava fermo, consideravo come proprio le ridotte dimensioni di quell’ambiente, che da ragazzo avevo vissuto come angusto e opprimente, fossero in realtà funzionali all’esistenza e alle esigenze di quella minuta e apparentemente fragile donna di ottantatré anni, zia Tana, mia zia. E cominciavo a capire come gli spazi ampi che da giovani si desiderano per soddisfare l’impronta espansiva propria di quel periodo della vita, in età matura è naturale tendano a ridimensionarsi, modellandosi all’individuo che, ridotti gli spostamenti al pari delle sue esigenze materiali, dovrebbe, in alternativa, aver costruito orizzonti più ampi sul piano ideale e concettuale.

‒ Quanto zucchero vuoi? ‒ domandò zia Tana.

Prendere il caffè da lei era sempre stato e rimaneva un rito. Usava ancora una piccola caffettiera napoletana che diffondeva l’aroma sottile, morbido e penetrante del caffè. Si faceva attendere, ma l’attesa era ripagata da un gusto sopraffino.

‒ Due cucchiaini, grazie. E senza biscotti!

Anche i biscotti, fatti in casa, facevano parte del cerimoniale. Li serviva, in soprannumero, su un piccolo vassoio di ceramica ornato da un centrino impreziosito da una frangia antica che lei stessa aveva ricamata a mano.

Tutta la cerimonia non aveva bisogno di parole. I gesti già tanto carichi di amorosa cura e la vicinanza, in quell’ambiente così piccolo, erano di per sé comunicazione sufficiente.

Servito il caffè zia Tana sedeva accanto al camino su una piccola sedia col fondo in paglia, attizzava il fuoco e stava immobile e silenziosa. Era improbabile che intavolasse una discussione, se non chiamata direttamente in causa. Quando era proprio loquace mi chiedeva, di suo, come stessero i miei genitori.

Il profilo tagliente dell’intera figura dava l’impressione di penetrare lo spessore del tempo, lasciandoselo scivolare ai lati senza rimanerne coinvolta. Pareva una sfida. Più d’una volta mi era capitato di domandarmi se pensasse alla morte. Se l’idea le sovveniva, di certo, la viveva più come una naturale successione di accadimenti, come uno sfumato dissolvimento, come il buio che penetra la luce, piuttosto che un evento brusco, irrispettoso, stravolgente. Personalmente ero convinto che la grande falce avrebbe avuto difficoltà a mietere quella vita.

Più la guardavo, più mi rendevo conto della ricchezza e dello spessore dei suoi gesti. Anche il più insignificante mostrava una stratificazione che per essere descritta appieno avrebbe avuto bisogno di milioni di parole! E non sarebbero bastate. Afferrai in quel momento una prospettiva nuova della superficialità e della farraginosità di un linguaggio che, pur evoluto, è insufficiente nel descrivere la realtà, gli avvenimenti o ancor più i moti dell’animo.

Da giovane zia Tana non si poteva dire fosse carina. Il viso affilato, la bocca e il mento prominenti, murruda per i belviesi, e un fisico ossuto e spigoloso le conferivano un aspetto decisamente poco aggraziato, ma il passare degli anni aveva modificato la sua figura. La maturità le aveva dato un aspetto gradevole e pareva quasi bella. Vedevo in lei uno di quei casi, pochi in verità, nei quali il rimanere fedele al proprio modo di essere, una volta acquetatesi le passioni e raggiunto col trascorrere degli anni un maturo equilibrio, renda giustizia del torto subito in gioventù. Quasi il destino ti ricompensasse per ciò che aveva negato all’origine.

I pensieri sulla poca grazia giovanile di zia Tana mi riportarono alla mente i volti di molte giovani donne che da bambino avevo incontrato per le strade, i vicoli, in piazza. Ve ne erano alcune molto belle che rimanevano tali solo sino al giorno del loro matrimonio. Qualche settimana dopo l’evento, una trasformazione repentina, quasi ineluttabile, le faceva sfiorire e la loro bellezza veniva sostituita da un grigiore sempre più anonimo che le rendeva irriconoscibili. Eppure, durante il fidanzamento, quale che fosse l’occasione che le portava fuori di casa (fare la spesa o incontrare il promesso sposo), era difficile evidenziare nella loro figura, nei loro gesti, una qualche sbavatura. Anche sotto il profilo del comportamento sociale ponevano la massima cura nell’evitare ogni sorta di irritazione nel compagno. Docili, remissive, silenziose, prima di rispondere a una domanda, con lo sguardo, chiedevano all’uomo il permesso. Il poi è riscontro giornaliero.

Questa constatazione, confermata negli anni, mi aveva portato a teorizzare come a ciascun individuo il destino offra un periodo di massimo splendore fisico, intellettivo e psicologico, di durata variabile, collocato a un certo punto della propria vita, il più spesso in età giovanile, che è in realtà il momento più propizio per tentare di accaparrarsi una fetta di risorse disponibili (un lavoro, un marito o una moglie). Non che fossi particolarmente convinto della bontà di questa teoria, ma ciò che m’incuriosiva era come la durata del periodo di splendore fosse molto più lunga, si protraesse nel tempo e talora si ripetesse in coloro i quali questo momento arrivava tardi. Un meccanismo di compenso? E perché si ripeteva? Di certo in questo fenomeno interveniva il personale habitus genetico nel determinare la data di comparsa e la durata dello splendore, ma era parimenti importante il fatto di non smettere di essere curiosi, di stupirsi o di meravigliarsi, come pure di fantasticare a occhi aperti, tratti infantili che molti adulti hanno volutamente abbandonato ritenendoli segno di scarsa maturazione. Avevo anche notato come l’innamorarsi spesso o non il non smettere mai di essere disponibili emotivamente fossero condizioni in grado di favorire il ripetersi del periodo di splendore (una nuova giovinezza?). Più d’una volta, peraltro, mi ero posto la domanda se fosse più desiderabile vivere presto questo periodo, e quindi appartenere alla schiera dei “belli da giovani”, ma che inevitabilmente e rapidamente sfioriscono, oppure far parte di quelli che ancora a vent’anni non hanno una forma delineata e quindi giungono a compimento più tardi. Come quei frutti che maturano fuori stagione e in inverno inoltrato sono ancora succosi, gustosi, desiderabili.

Avevo cominciato a frequentare assiduamente quella piccola casa, e avevo quindi avuto modo di conoscere da vicino zia Tana, solo da grande. Il mio lavoro mi aveva riportato, non so se poi tanto casualmente, nei luoghi della mia infanzia, nel paese natio, Belvì, un piccolo borgo di circa ottocento anime a mezza costa nel cuore di una verde vallata ai piedi del massiccio del Gennargentu, in piena Barbagia. Le cime brulle dei monti che delimitano la vallata ricordano l’abbattimento delle secolari foreste, uno scempio perpetrato da parte dello Stato per alimentare i forni della grande industria del settentrione d’Italia durante la prima guerra mondiale. Un prezzo pagato, e presto dimenticato, all’unità della nazione e allo sviluppo del Nord, dagli abitanti della Barbagia.

Avevo vissuto in quel piccolo paese solo la mia prima infanzia, ma era stato un tempo sufficiente per imprimere nel mio cuore i profili di quei costoni, il profumo dei boschi, l’azzurro del cielo invernale, il sapore e la freschezza dell’acqua delle sorgenti nel verde dell’estate, la quiete del rintocco delle campane la sera. E anche il vociare della gente, ora basso e confuso, ora impetuoso, i rimbrotti degli anziani, i sorrisi, le carezze di chi ti viveva accanto, le prime curiosità soddisfatte, lo sgomento nello scoprire la profondità del cielo buio in una notte stellata, la paura di una vecchia incurvata dagli anni, sempre vestita di nero, che mi avevano fatto credere una strega.

Le mie radici erano lì e per sempre ne avrei portato il segno. Un segno che inevitabilmente riemerge prepotente e in modo apparentemente inspiegabile a un certo punto della vita. Prima o poi, non importa, ma di certo un giorno accade. Un giorno sicuramente fortunato, poiché se riemergono quei segni diventa possibile una catarsi che libera dalle sovrastrutture inutili accumulate nel corso della vita, che ci può affrancare dai molti bisogni materiali, che ci riapre gli occhi e il cuore alla semplicità, all’immediatezza, allo stupore. E allora si riaccede alla gioia di vivere: si ritrovano i colori di quell’età felice che si espande in un universo possibilistico nel quale il sogno e la realtà coincidono, le regole e le norme sono funzione dei desideri, non esistono remore né pregiudizi, la forma della vita non ha nessuna costante definizione, è assente la paura per l’ignoto, per il nuovo, per il cambiamento, e prevale al contrario una curiosità senza limiti, una disponibilità emotiva capace di coinvolgere, una tenerezza per tutto e tutti, una comprensione senza dubbi.

Sorrisi al pensiero delle tante volte che avevo cercato quel ritorno alle origini, ai modi dell’infanzia e al come me ne ero servito per forzare orizzonti divenuti troppo angusti, per attuare un cambio di prospettiva che già di per sé, talora, è soluzione del problema. Bastava mi ripetessi “Ragiona come un bambino”, oppure “Cosa avresti fatto allora”, che già un primo nodo si scioglieva.

Mi sovvenne, forse per associazione di idee, ciò che mi era capitato qualche giorno prima. Nel percorrere la strada statale che da Belvì riportava in città, a un certo punto avevo deciso di fermarmi perché convinto di dover morire da un momento all’altro. Era un pensiero opprimente che covavo da tempo, ma solo quel giorno era emerso tanto prepotentemente. Avevo scelto un dolce pendio collinare ricoperto da un fresco manto erboso e lì, sotto un albero che infiorava le sue prime gemme, mi ero disteso in attesa della mia dipartita. Consideravo come fosse più facile un trapasso in quelle condizioni, a contatto con la natura, come parte di essa. Mi avrebbero trovato addormentato, sorridente forse, anche se non capivo come l’angoscia di quel momento potesse trasformarsi in sorriso. Consideravo la mia vita trascorsa. Ero dispiaciuto di non avere altro tempo per concludere ciò che avevo avviato e per altre desiderate esperienze. Ma d’altro canto, se quello era il momento! Dopo un quarto d’ora incominciai ad avvertire un poco di fame. Pensai che una simile sensazione mal si conciliava con una morte imminente. Che non fosse proprio l’ora? Mi allungai tutto sull’erba umida quasi a favorire l’abbraccio con la signora del nulla. Passarono altri dieci minuti e la sensazione di fame divenne un crampo doloroso che solo una bella bistecca avrebbe potuto far cessare. Presi in considerazione l’ipotesi che si poteva anche rimandare. D’altro canto, mi dissi, per pagare e per morire c’è sempre tempo. E poi i bambini non hanno paura di morire. Ripresi il viaggio con in testa una trattoria familiare che avrei trovato qualche chilometro più avanti e dove feci sosta per calmare quel morso allo stomaco, segno certo di una vitalità indiscutibile. L’episodio, pur simpatico, era il sintomo di un disagio interiore che imponeva una profonda riflessione. I mille pensieri che affollavano la mente, i mille propositi che vi si affacciavano, le tante iniziative al palo che attendevano di essere realizzate, tutte queste molteplici situazioni contemporaneamente presenti senza che nessuna di esse fosse prevalente, ma che anzi tendevano ad equivalersi, mi impedivano di comprenderne e stabilirne la priorità, l’importanza, anche in qualche caso la ragion d’essere. Una sorta di omogenato nel quale non s’intravvedeva più l’ossatura dei discorsi, non si distinguevano i desideri profondi: tutto era appetibile allo stesso modo, tutto era basilare e superfluo allo stesso tempo, un grigiore che bruciava energie senza produrre nessun costrutto.

In realtà, ma non era stato facile persuadermene, avevo il problema di stabilire una gerarchia di valori, di intendimenti, di propositi, di opzioni, e la mancanza di questa organizzazione di pensiero era un chiaro segno della necessità di provvedermi di un nuovo orizzonte. Fortunatamente ero ancora sufficientemente libero da attorcigliamenti linguistici, da condizionamenti emotivi, da contingenze materiali, per capire come questa nuova visione dovesse avere per confini la profondità del cielo e l’intimo del mio animo. Avevo intuito di essere alla ricerca di uno spazio continuo nel quale muovermi agilmente senza subire l’influsso della forza di gravità che schiaccia verso il basso, magari offrendo stabilità ma impedendo di volare, e nel quale navigare alla ricerca della sorgente dei miei desideri. Dovevo dare un senso universale alla mia esistenza, un senso che doveva comprendere anche la morte. Per non aver paura di vivere.

Osservai zia Tana che attizzava il fuoco. Il busto chino, proteso in avanti e in basso, si modellava senza sforzo sulle gambe, segno di un’agilità invidiabile. Trafficava con i due tizzoni consumati a metà. Li avvicinò perché si mantenesse viva una debole fiamma. Divertito, osservavo come lei riusciva a tener acceso il fuoco solo con quei due tizzoni e con l’aggiunta ogni tanto di qualche legno sottile. Lei aveva sempre fatto il fuoco, interprete di un ossessivo ma giustificato risparmio, con pochissima legna. Diceva che il troppo caldo la disturbava. E poi in una stanza così piccola! Qualche volta avevo provato, mentre lei era nel cucinino accanto, ad aggiungere legna. Una volta rimessasi davanti al fuoco, senza dirmi nulla, senza un benché minimo rimprovero, la allontanava spostandola ai lati. Era più forte di lei.

Il mio sguardo si era incantato sul fuoco. Quale stupefacente prodigio! Pezzi di legna morti dai quali si sprigionava una, a dir poco, originale forma di vita. Una meraviglia che suscita lo stesso stupore nei bambini come negli adulti. Comprendevo come gli uomini primitivi ne fossero attratti e ne avessero timore, e come coloro che avevano imparato a dominarlo fossero così gelosi della loro arte. Sì, perché accendere il fuoco è un’arte. Sembra facile, ma non lo è. Occorre scegliere con cura la legna (ogni tipo di legna dà un fuoco diverso, per calore, durata e per colore di fiamma), disporla secondo una precisa architettura (occorre posizionare un tronco robusto su un lato del fuoco, poggiare su questo prima dei legnetti sottili e poi quelli più grossi), dar fiato alle prime timide fiammelle (con poca carta arrotolata) e poi saperlo assecondare. Mi venivano in mente i numerosi ma vani tentativi di amici, vissuti in città e in case senza camino, che ospiti a Belvì si cimentavano in quell’incombenza. Un bel mucchio di legna, tanta carta di giornale per accenderlo, un fiammifero, un’iniziale fiammata, poi tanto fumo e il fuoco rimaneva spento.

Avvertivo una sorta di strano piacere nel rimirare quella fiamma debole. Senza pensarci aggiunsi legna. Volevo un grande fuoco. Passò solo qualche minuto e la fiamma, che inizialmente scaturiva guardinga, divenne via via più prorompente tra i legni e cominciò ad arrossarli, consumarli, divorarli. Una, due, dieci lingue di fuoco, sempre diverse nella forma e nei colori, danzavano e volteggiavano sui legni accesi che alle fiamme cedevano tutta la loro forza, la loro energia. Vi fu un momento in cui il fuoco, quando una parte della legna fu bruciata e già si contavano numerose braci rosse e sfavillanti, ebbe un che di magico. Sembrava vivo, pareva volesse parlare, raccontare la sua storia. Borbottava, sfrigolava, scoppiettava, m’invitava, mi attraeva, mi ipnotizzava. E i rapidi movimenti delle fiamme parevano seguire il corso dei miei pensieri. Sentivo il fuoco compagno fraterno, un amico che senza parole ti fa ragionare, facilita le decisioni, agevola le scelte. In cambio chiede attenzione, rispetto, cura. Disposto a rendere fruibile la sua grande forza, non tollera chi lo tratta con sufficienza, incompetenza, presunzione. Col fuoco occorre saper trattare. Per non conoscerne la straordinaria, terribile, inarrestabile, tremenda furia devastatrice, ben nota a chi nei boschi della Barbagia ha dovuto fronteggiarlo nel tentativo di impedire la totale distruzione del proprio territorio. Furia devastatrice non sempre occasionale e fortuita. Belvì da tanti anni non conosceva una simile disgrazia. Fortunatamente!

Il mio pensiero tornò al fuoco amico e a zia Tana. Prima di allora il mio rapporto con lei si era limitato a qualche occasionale visita. Da bambino zia Tana mi era quasi sconosciuta. Erano i miei fratelli più grandi a frequentarla. Io conservavo soltanto alcune immagini che appartengono a periodi lontani e diversi tra di loro.

Ricordavo i telai per la tessitura della lana e del lino, sistemati nelle due stanze della sua casa al piano terra, a disposizione delle ragazze del paese che imparavano a usarli, e me che osservavo incantato il movimento della spola. Stavo a guardare in silenzio. Mi domando ancora oggi se per caso la mia frequentazione in quell’ambiente non fosse più in relazione alla presenza femminile che alla curiosità per la tessitura! Già da allora, pur bambino, l’attrazione nei confronti delle giovani donne era viva, anche se non ben compresa. Mi piaceva la loro vicinanza, mi affascinavano le movenze, m’incuriosivano i toni delle loro voci più che i contenuti dei discorsi. Era un mondo, quello femminile, poco emergente, ma del quale avevo intuito l’enorme entroterra, tanto nascosto quanto emotivamente ricco. E già desideravo, pur inconsapevole, scoprirne le fragranze, assaporarne i profumi. La vita del paese, d’altro canto, per i bambini e i ragazzini ruotava prevalentemente attorno alle figure femminili, poiché i grandi, ragazzi e uomini, non ci volevano con loro. Esclusi dal mondo adulto maschile non restava che quello femminile, in verità più giocoso, ridente, malizioso. E così capitava che alla fontana, dove le donne e le ragazze si recavano per approvvigionarsi d’acqua con le brocche, qualcuna ti accarezzasse mostrandoti alle amiche e sottolineando i segni di una futura, maschile bellezza. Io a quel tempo avevo otto o nove anni e mi ero innamorato di una ragazza grande, di cui non ricordo il nome, che mi aveva preso in simpatia. La incontravo proprio alla fontana (direi che facevo in modo che ciò accadesse) e capitava alle volte che s’intrattenesse a scambiare due chiacchiere con me. Sapevo che frequentava di nascosto un tipo poco raccomandabile e ne ero in qualche senso geloso, ma d’altro canto mi rendevo conto di non rappresentare per lei null’altro che un’estemporanea simpatia. Mi accontentavo delle emozioni che in me lei suscitava. Le sue forme morbide, rotonde, il suo sorriso aperto, gorgogliante sulla bocca procace, la sua impudica tenerezza, credo abbiano indirizzato le mie scelte femminili successive. Un’altra traccia indelebile.

La fontana, il filo d’acqua sorgiva che lentamente riempiva le brocche, alimentava un chiacchierio che, esaurito l’ultimo pettegolezzo, diventava terreno di confronto e di dibattito intorno ad ogni fatto, ogni idea, ogni proposta. Alla fontana si creava l’opinione comune femminile come al bar si formava quella maschile. L’appuntamento alla fontana era prevalentemente mattutino, quello al bar serale. Terminata la giornata di lavoro in campagna, gli uomini si ritrovavano davanti a un bicchiere di vino, di birra, con in mano un mazzo di carte per giocare a tresette. Di solito giocavano i più bravi e tutti gli altri stavano a guardare, obbligatoriamente in silenzio. Solo dopo la conclusione della mano era permesso parlare e si accendevano le discussioni. Poteva capitare allora che qualcuno introducesse un discorso e, commentandolo, esprimesse la sua opinione. Le carte venivano messe da parte e da lì cominciava un vero e proprio dibattito nel quale tutti potevano manifestare il proprio parere senza il timore di essere presi in giro, qualsiasi cosa si dicesse. Una disputa nella quale prevaleva solo la tesi che avesse a corredo un sano ragionamento di buon senso e che fosse condivisa dai più. Ricordo un tema che tenne banco per un’intera estate. Se ne parlava tutti i giorni, si chiedeva il parere anche a chi di passaggio si fermava in paese, si cercava nei libri la risposta al quesito che era il seguente: “Esistendo una sorgente a pochi metri dalla cima del Gennargentu, a 1800 metri di altezza, qual è la sua origine?”

L’ipotesi in discussione era che quell’acqua venisse dalle Alpi, dal monte Bianco, poiché doveva provenire da una montagna più alta. Un fiume sotterraneo attraversava il Tirreno, giungeva sino alle viscere del Gennargentu e da lì un condotto risaliva il cuore della montagna dando origine alla sorgente. Gli anziani del paese si erano schierati per la tesi che l’acqua venisse dalle Alpi. Una posizione comprensibile se rapportata al loro grado di scolarizzazione (i più avevano fatto sì e no qualche classe delle elementari). Ma trovavano comunque consensi poiché convinceva il loro ragionamento che tentava di trovare nell’esperienza pratica la regola per risolvere il problema. In assenza dei pareri illuminanti e vincolanti del medico, del farmacista, del maresciallo dei carabinieri (figure non presenti nel paese perché troppo piccolo), ciascuno ebbe modo di dire la sua e di avere un momento di gloria, di popolarità. Si arrivava al bar affermando di avere trovato la risposta, e chi parlava aveva l’attenzione di tutti. E quanto più la tesi era originale o fantasiosa, tanto più accendeva la disputa. Un giovane studente universitario, in vacanza a Belvì, illustrò scientificamente e correttamente il fenomeno, ma la sua versione fu assolutamente disattesa poiché nulla aveva a che fare con la pratica quotidiana, con la concretezza. A fine estate la diatriba si spense come si era accesa, senza una soluzione condivisa, lasciando ciascuno con la propria opinione. Riflettendo su quel tipo di discussioni mi rendevo conto come quel metodo di confronto, di dialogo, fosse in grado di avvicinare la gente, di farla sentire partecipe di un’unica comunità, di come fosse capace di costruire un sentire condiviso che altro non è che l’anima di un paese, la sua storia, la sua cultura, la sua vita.

Un’altra immagine collegata a zia Tana e alla sua casa è quella del festeggiamento, al quale per la prima volta partecipavo, per la sua investitura al ruolo di prioressa. Era questa una carica ambita tra le donne adulte del paese, e veniva attribuita annualmente dal parroco alla parrocchiana che aveva dimostrato più dedizione. Il tutto si svolgeva nell’ambito delle liturgie dei santi e delle incombenze che le fedeli si rendevano disposte a svolgere. La dedizione era misurata dalla quantità di offerte raccolte. La prioressa, per festeggiare la nomina, offriva un rinfresco nella propria casa. A tutti i partecipanti venivano serviti rosoli, amaretti, caschettes (un dolce tipico del paese) e da ultimo i biscotti e il caffè. Ai bambini prima di andar via venivano date alcune caramelle e ai più fortunati qualche cioccolatino. Era quella una delle poche occasioni nelle quali si potevano mangiare dolci, ed era chiaro come noi bambini tentassimo di intrufolarci anche senza essere invitati.

Anche in occasione dei funerali venivano offerti rosoli e dolci, ma ricordo che non amavo quel tipo di cerimonia poiché era d’obbligo andare a baciare i parenti del defunto, che, seduti tutti nella stessa stanza mi sembrava fingessero un profondo dolore, poiché si lamentavano e piangevano solo quando qualcuno si avvicinava per far loro le condoglianze, mentre se non v’era nessuno parlavano tra loro normalmente. Le visite potevano protrarsi, a seconda dell’importanza del personaggio, anche una intera giornata. Io non capivo tanta disperazione per un evento, quello della morte, che consideravo un fatto naturale, e mi meravigliavo del comportamento dei parenti del defunto. Quando morì mia nonna, alla quale ero molto attaccato, avevo sette anni e i miei genitori non vollero che partecipassi ai funerali. Dopo averle dato un bacio sulla guancia quando era già nella bara (fu l’ultimo mio saluto), mi spedirono da alcuni miei zii che giustificarono l’allontanamento come tentativo di evitarmi una sofferenza. Ma io non soffrivo. Mi rendevo conto che non avrei più visto mia nonna, ma ero convinto che quel distacco fosse solo un’interruzione momentanea del nostro rapporto e che un giorno o l’altro l’avrei rincontrata, riprendendo con lei il dialogo rimasto in sospeso la sera prima della sua morte. Un appuntamento senza data né luogo, ma che sapevo non avrei mancato. Un atteggiamento poco comprensibile perfino a me, ma che ha sempre funzionato allo stesso modo in tante altre occasioni preservandomi dalla sofferenza e dall’iscrizione in memoria di indelebili tracce di dolore.

Per chiarire l’intima natura di questo meccanismo che tanto bene mi ha difeso nel corso degli anni, avevo elaborato una teoria dello spazio-tempo consona, a dir la verità, più ai miei desideri che alla logica. L’esigenza di questo costrutto teorico nasceva anche dal fatto che sin da ragazzo avevo sempre avvertito il concetto comune di spazio-tempo come una limitazione enorme all’ampliarsi dell’orizzonte dell’esperienza, al dispiegarsi della vita emotiva, allo sviluppo della stessa conoscenza. L’idea di un’esperienza sequenziale, di una serie di accadimenti catalogati secondo una data, uno dopo l’altro, mi lasciava perplesso. Un nodo scorsoio in grado di soffocare ogni curiosità, ogni anelito, ogni tentativo di volare, finanche ogni emozione. Nel campo della conoscenza la prospettiva di un’acquisizione per gradi successivi, per minime differenze anche significative, senza salti logici e senza intuizioni o inferenze, mi appariva solo limitativa. Per ciò che concerneva la ricerca della verità, a quell’età meta ancora vaga e non ben delineata, quella concezione del tempo mi sembrava potesse divenire fuorviante. In campo emotivo il modello di un’emozione per volta mi appariva un’imposizione introdotta da chi aveva poche chance di conquista per riservarsi qualche possibilità, e non dava nessuna risposta al come poteva essere conciliato e soddisfatto il bisogno individuale di una vasta gamma di affetti.

Vi erano tra l’altro alcuni motivi pratici di non trascurabile importanza che richiedevano l’adozione di una teoria dello spazio-tempo, diciamo, originale.

Il primo di questi motivi, che avevo sperimentato come tutti, era che la spasmodica attesa di qualcosa di molto desiderato, oltre a dilatare il tempo, induceva una cancellazione di ogni realtà intermedia. Quella frazione di vita diventava funzione di ciò che si aspettava e null’altro aveva importanza. Ore, giorni, a volte settimane, rese vuote dall’attesa. Mi sembrava una perdita incredibile!

Il secondo motivo era la condizione fastidiosa che volevo evitare e che definivo “effetto di trascinamento”. Nell’affrontare una nuova situazione, una nuova esperienza, spesso capita di portarsi appresso il colore, l’emotività, i sentimenti, il sapore che ha contrassegnato l’avvenimento precedente. Ora, se in alcune circostanze ciò può essere positivo (avere in mente un insegnamento appena appreso e metterlo in pratica), nella gran parte dei casi la commistione di situazioni molto diverse spesso diventa disturbante, oltre che un impedimento a vivere la realtà attuale con naturalezza, spontaneità, piacere.

La costruzione di un’originale, e a me coerente, concezione dello spazio-tempo non era problema da poco, e intuivo peraltro che non esisteva una unica soluzione, buona per ogni situazione. Tra le tante via via adottate, una soluzione ricca di frutti fu quella di trattare ogni mia storia, ogni situazione, come un universo a se stante, con spazio-tempo e regole di funzionamento del tutto peculiari: ogni universo poi non poteva e doveva avere connessioni con tutto il resto. Una brillante idea che però funzionava bene solo in presenza di una grande energia di fondo, tipica dell’età giovanile, e con universi di piccole e medie dimensioni. Un’altra fu quella di considerare lo spazio-tempo come un fascio di linee obbediente allo stesso sistema di regole (questa la differenza con l’idea precedente). Ogni esperienza veniva segnata, come con un evidenziatore, su un tratto di una delle linee, provvedendo ovviamente ad ascrivere sulla stessa linea accadimenti della medesima storia. Lo spazio-tempo continuava ad avere la dimensione continua avversata, ma l’uso di linee diverse permetteva l’applicazione del “qui e ora”. Di ogni storia veniva presa in considerazione solo la parte realmente vissuta, cancellando, come inesistenti, i tempi morti. Poteva essere un modo per interpretare il meccanismo con il quale avevo vissuto la morte di mia nonna. Il non poterla vedere più era solo un’interruzione temporanea, quindi un tempo morto da non prendere in considerazione in attesa del successivo incontro. Così ho catalogato tanti altri episodi della mia vita che per un motivo o per l’altro si sono interrotti e che io non volevo chiusi per sempre.

Le energie e la costanza profuse alla ricerca di soluzioni al problema dello spazio-tempo non sono quantificabili, ma hanno prodotto l’enorme vantaggio della maturazione di un pensiero sofisticato, della possibilità di una analisi degli accadimenti molto profonda e l’accumulazione di una conoscenza proiettata verso un orizzonte che continuamente, e in modo autonomo, si amplia. Una lunga, tortuosa, difficile strada per tornare, da grande, a essere un bambino. Sì, perché da bambini si passa facilmente da una festa, nella quale si è sinceramente allegri, a una cerimonia funebre, che può suscitare una profonda commozione, senza che un avvenimento influenzi l’altro e nella più totale indipendenza delle due esperienze. E ogni nuova acquisizione costituisce di per sé un nucleo di aggregazione di altri pensieri. Inoltre, nei bambini il tempo come dimensione vincolante non esiste. Non sono certo se i bambini nascano senza l’idea del tempo, ma sono fermamente convinto che la visione relativistica, quella einsteiniana di uno spazio-tempo denso o rarefatto, appartenga loro come bagaglio connaturato. È responsabilità dell’educazione successiva e dei condizionamenti culturali se un così corretto approccio alla conoscenza dell’universo finisce per essere confinato in una tanto primordiale quanto mediocre concezione temporale del mondo!

La mia mente abbandonò il filo di quei pensieri così complicati e scivolò di nuovo sui ricordi infantili.

Sui dolci tanto desiderati, che non mancavano mai a casa di zia Tana, e che venivano parcamente offerti a noi bambini quando si accompagnavano gli adulti nelle visite. Per vederne ed averne tanti però, di dolci, bisognava che qualcuno si sposasse.

In un paese così piccolo un matrimonio, salvo non si trattasse di una coppia poverissima, era un avvenimento e metteva in moto una macchina organizzativa che coinvolgeva, direttamente e non, quasi tutti. Ciascuno aveva il suo compito, nel quale col tempo diventava specialista. Alle giovani dell’azione cattolica spettavano gli addobbi floreali in chiesa, realizzati con rose colte di fresco; ai ragazzi il trasporto delle sedie che, prese in prestito e prelevate da ogni casa, venivano disposte nelle varie sale che avrebbero ospitato il ricevimento. V’era chi si preoccupava di ripulire le strade dove il corteo nuziale sarebbe passato. Solo i vecchi potevano stare a guardare e si divertivano a commentare con bonario sarcasmo l’evento. A uno che sposò una donna minuta e insignificante gli affibbiarono un “Potes narre cha ses coiau, ma non podes narre cha tenes femmina” (puoi dire di essere sposato, ma non puoi dire che hai una femmina).

In quella poderosa macchina organizzativa, l’aspetto che maggiormente mi meravigliava era la preparazione del cibo: iniziava la sera prima della cerimonia e si completava quando era già terminato il pranzo ufficiale. Enormi pentoloni, grandi spiedi, casseruole di ogni forma e dimensione. E tante persone accaldate, sudate, affaticate intorno ai fornelli o davanti ai fuochi. Mi veniva in mente una bolgia dell’inferno.

Veniva cucinata una montagna di cibi. Soprattutto carne, di bue, di pecora, di capra, lessa con le patate, arrosto sulle braci. E poi tutte le interiora, intrecciate, a pezzi, a fette, in tanti sughi. Il tutto accompagnato dalle verdure di stagione appena colte. Per non dimenticare le paste fatte in casa, i ravioli di ricotta e di patate! E i prosciutti, le salsicce, la guancia del maiale, lo stomaco di capretto. I formaggi, freschi o stagionati. E finalmente i dolci: caschettes, bucconettes, pardule, amaretti, sospiri, ciambelle, quasi tutti fatti in casa. A noi bambini era permesso più di un dolce e per esagerare anche un goccio di caffè lungo. Poi, fondamentale, il vino. Solo rosso. A fiumi. Era il collante di tanto ben di Dio. Era quello che accendeva i discorsi, lo spirito, il riso, come pure, talora, le zuffe. Ma a quel punto gli sposi, dopo aver distribuito i confetti e raccolto in un canestro le buste contenenti le offerte in danaro, avevano già tagliato la corda verso talamo nuziale accompagnati da un coro di cantori, non importava se fossero stonati o meno. Non era d’uso il viaggio di nozze.

Un elemento comune di matrimoni, festeggiamenti, riti funebri o altro, erano le sedie e la loro disposizione. Innanzitutto erano le stesse. Nessuno in paese possedeva tante sedie per far accomodare tanta gente e pertanto, in occasione di queste manifestazioni, si produceva un via vai che svuotava le case dalle sedie trasferendole in quella che le ospitava. La disposizione caratteristica le vedeva addossate alle pareti delle stanze, l’una accostata all’altra senza soluzioni di continuità, anche dove v’erano le porte (era un punto dove non conveniva sedersi per la scomodità derivata dai passaggi di tutti coloro che entravano e uscivano). Nelle stanze più grandi ne venivano poste anche al centro, con le spalliere a contatto, e allora restava solo uno stretto corridoio, utilizzato per passare o per servire. Quando c’era molta gente, si poteva star seduti per delle ore solo per assaggiare un rosolio e un amaretto! Ai bambini non venivano dati né liquori né vino. Se il rinfresco era importante ci si poteva aspettare, come bibita, un’aranciata.

Io partecipavo raramente alle varie cerimonie nel paese, poiché la nostra famiglia aveva limitati rapporti di parentela con i paesani per mancanza di legami aviti.

Mio padre, siciliano, era venuto in Sardegna all’età di diciassette anni, interrompendo gli studi scientifici, a causa del rovescio economico di mio nonno. Costretto, lui e il fratello, mio zio Nicola, a cercare un lavoro dovunque e a qualunque condizione, era venuto in Sardegna per la campagna contro la malaria. Siamo agli inizi degli anni ‘30. Diplomatosi qualche anno dopo alle magistrali, neomaestro aveva ricevuto l’incarico d’insegnamento a Gadoni, un paese vicino Belvì, dove aveva conosciuto mia madre, anche lei insegnante elementare. Si sposarono qualche anno più tardi con una cerimonia per pochi intimi perché anche mia madre aveva pochi rapporti di parentela a Belvì, suo paese natio (aveva solo la parentela da parte di madre). Da ragazzino se mi era chiaro il perché della mancanza di parenti da parte di mio padre, non capivo perché in un paese dove tutti lo erano tra di loro, noi non ne avessimo. Conobbi la verità molti anni più tardi, quasi per caso, raccontatami da Severa, la domestica che mi fece da Tata, durante una chiacchierata senza tema davanti al caminetto. Ricordo che ebbi a chiederle di quale natura fosse il rapporto che mia madre intratteneva con zia Marietta, una corpulenta e gentile signora che viveva a Dolianova, un piccolo paese a qualche chilometro da Cagliari, e che con tutta la famiglia andavamo di tanto in tanto a trovare. Per tanti anni non avevo capito quella frequentazione; tuttavia, data la grande casa campidanese con il cortile profumato dai limoni, il fienile e il granaio nel quale ci si poteva rotolare, l’orto con i suoi filari amorevolmente coltivati, il sorriso bonario e intelligente del marito, zio Efisio, non mi dispiaceva ottemperare a quelle visite. Poi perché zia Marietta? Severa, quasi meravigliata per la mia ignoranza dei fatti, mi raccontò di mio nonno materno che io non ebbi mai a conoscere.

Lui non era di Belvì (e non so dove fosse nato). Faceva il mediatore girovagando da un paese all’altro dell’intera isola, dove lo chiamavano gli affari. Alto, prestante, di aspetto gradevole, affabile, gentile, abbastanza colto per quei tempi, era uomo attraente e di fascino. Aveva anche una discreta disponibilità di mezzi finanziari. Durante i soggiorni che il lavoro gli imponeva nei paesi (era raro che un affare si concludesse in ventiquattro ore), lui, scapolo e senza legami, ebbe a conoscere molte donne e con alcune di queste intrattenne legami sentimentali. La storia iniziava qualche giorno dopo il suo arrivo nel nuovo paese e si concludeva con la sua partenza. Tutto alla luce del sole, senza inganni e sotterfugi e senza nessun tipo di precauzione (era convincimento diffuso in quei tempi che il periodo fertile per la donna coincidesse con quello mestruale, e quindi da evitare per non avere figli, mentre quello intermestruale era il più propizio per un amore senza strascichi). Molte di quelle storie sentimentali si conclusero con la nascita di un figlio. Alcuni di questi li riconobbe e furono aiutati economicamente, di altri non ne seppe mai nulla. Mia nonna, allora vedova, lo conobbe durante un suo soggiorno a Belvì e se ne innamorò, ricambiata. Dalla breve relazione nacque mia madre. Lui la riconobbe e da giovinetta la mantenne e la seguì negli studi magistrali a Cagliari. Mia madre, nonostante mio nonno dimostrasse per lei un attaccamento insolito e una dedizione che non aveva avuto per altri figli, ebbe a soffrire molto questa sua condizione che credo non gli perdonò mai. Gli negò la conoscenza dei suoi figli, legittimi nipoti. Inoltre non volle mai saperne dei tanti fratellastri o sorellastre che lui aveva disseminato in tutta l’isola. Una grande famiglia alla quale mia madre non volle appartenere.

Severa, nel racconto, volle sottolineare come pur in questa veste di seduttore mio nonno aveva sempre tenuto un comportamento rispettoso dei sentimenti delle donne che frequentava. Non le aveva mai ingannate. Chi lo frequentava sapeva cosa aspettarsi. Una volta fu portato davanti al pretore da una donna che lo accusava di averle promesso di maritarla per ottenerne i favori. La difesa fu molto facilitata dalla deposizione spontanea di molte delle sue precedenti compagne che testimoniarono la sua buonafede e la correttezza dei suoi comportamenti. Fu assolto per non aver commesso il fatto.

Solo qualche giorno prima di morire (aveva passato gli ottanta) sposò la donna che lo aveva assistito negli ultimi anni della sua vita e che gli aveva dato gli ultimi quattro o cinque figli. Mia madre, ma non ne sono certo, non partecipò al funerale.

Il racconto di Severa aprì un vuoto che sino ad allora non avevo avvertito. Incuriosito, cercai altre informazioni da mia madre, che però fu molto evasiva. Si vedeva che non voleva parlarne, nonostante i tanti anni trascorsi. Non accettai di buon grado questo silenzio e credo cominciai a covare una sorta di disappunto nei suoi confronti. Anche se capivo il suo disagio, non ammettevo che questo stato d’animo finisse per privare tutti noi figli di un patrimonio affettivo che ci spettava. E quale più grande affetto di quello di un nonno!

Una volta, in occasione di un acceso confronto, non seppi trattenermi dal rimproverarla di averci privato di una parte importante della famiglia.

Questa limitata parentela si palesava soprattutto per Natale. Tutti i coetanei andavano a trovare nonni, zii e quanti altri fossero parenti per rimediare una qualche regalia. Io non avevo nessun giro da fare e non ricevevo nulla. È stato per tanti anni un cruccio. Accentuava quell’isolamento al quale eravamo stati educati. Sì, perché eravamo stati educati a non mescolarci troppo con i paesani per uniformarci al ruolo che i miei genitori rivestivano nel paese: mia madre era sa maista (la maestra per eccellenza) della scuola elementare. Quasi tutti i belviesi hanno appreso da lei a leggere e a scrivere, quando già frequentare e concludere la seconda elementare era un risultato apprezzabile. E se è vero (e io ne sono convinto) che chi aiuta a costruire il linguaggio nelle menti dei bambini ne indirizza il pensiero, a tutti i suoi alunni mia madre ha insegnato non solo i rudimenti del leggere, dello scrivere e del far di conto, ma soprattutto a pensare. Ha pure insegnato loro a comportarsi nel rispetto delle regole con una vita esemplare che ha tracciato quella di chi ha avuto la fortuna di averla come insegnante. Ancora oggi sa maista gode presso gli abitanti del paese di una considerazione che il tempo non ha minimamente intaccato.

Mio padre, dapprima insegnante, poi direttore didattico e per qualche anno sindaco del Comune, era stato figura di prestigio nel paese e nella più vasta comunità della zona. Entrambi avevano fatto parte di un gruppo d’intellettuali negli anni antecedenti la seconda guerra mondiale, animando con il loro grande fervore la vita di quella comunità.

Un grande progetto di sviluppo delle zone montane, incentrato sulla valorizzazione delle risorse locali, dalle bellezze dei luoghi, dei prodotti della terra, dei manufatti artigianali e artistici, era stato ideato e predisposto da quel gruppo. Una sintesi era stata inviata a vari quotidiani isolani e della penisola. Il Corriere della Sera l’aveva pubblicata sottolineandone l’originalità e apprezzando l’impegno di quegli sconosciuti. Erano quelli tempi nei quali ancora potevano emergere idee che erano espressione di un sentire comune e che non avevano bisogno di etichette partitiche o di padrini potenti. Erano idee che possedevano una vitalità intrinseca e che riuscivano a farsi strada, favorite in questo anche dall’evidente assenza di quella moltitudine di sciocchezze, di quell’affollamento di banalità, che da allora in poi ha incominciato a ingorgare il mondo della comunicazione. La regola che un eccessivo rumore di fondo disturba e confonde anche le intelligenze più vive, più attente, è tanto vera quanto misconosciuta dai più (è invece ben nota a chi ha l’interesse a non far crescere le menti). Sarebbe opportuno tornare a un pensoso silenzio per ridare un profondo orizzonte ai pensieri e alle idee. Per far emergere solo quelle originali, innovative, di grande respiro!

Di quel progetto purtroppo non se ne fece nulla e tanto impegno fu disperso. Che peso poteva avere un territorio così sperduto e scarsamente abitato, nelle scelte politiche di chi aveva già dimenticato di averlo depauperato, per il bene della nazione naturalmente, dell’unica risorsa che possedeva? Ovvero i boschi attraverso i quali passava la ferrovia a scartamento ridotto che collegava Belvì con Cagliari, il capoluogo della regione. Otto ore di treno separavano il paese dalla città. Otto ore passate ad ansimare assieme alla locomotiva che nelle salite arrancava, sbuffando, come un asmatico. Sembrava dovesse fermarsi da un momento all’altro, e non era insolito che ai passeggeri si chiedesse di scendere per alleggerire il carico. Tutti a piedi si seguiva il treno sino a quando, superato il pendio, si risaliva (al volo naturalmente) in carrozza. Viaggi epici! I miei fratelli maggiori e io facevamo quel viaggio due volte all’anno. Si partiva da Cagliari all’inizio dell’estate, appena finite le scuole e appresi i risultati, e si ritornava in città ai primi di ottobre, al loro inizio. Si prendeva il treno, unico per quella destinazione, alla stazione delle ferrovie complementari. Occorreva arrivare per tempo se si volevano occupare i posti migliori. Si partiva alle dieci del mattino. La strada ferrata, dopo un breve tragitto nel cuore della città, s’inoltrava nella pianura del Campidano, poi saliva le colline della Trexenta, infine si arrampicava sulle montagne per infilarsi, con una lunga galleria (quasi un chilometro, la più lunga di tutta l’isola), nella vallata del mio paese. Un lungo viaggio che bisognava affrontare con pazienza, spirito d’avventura e una qualche provvista. Considerato che lungo la linea ferroviaria erano stati piantati, intelligentemente, alberi da frutta, o venivano coltivati dai cantonieri piccoli orti ricchi di verdure, se ne poteva approfittare senza esagerare durante le frequenti soste che la locomotiva era costretta a fare per approvvigionarsi di acqua. Le vecchie carrozze, tutte di legno, affollate alla partenza si svuotavano via via che ci si allontanava dalla città e si rimaneva in pochi. Nessuno, o quasi, prendeva il treno nelle stazioni intermedie, salvo i pastori che salivano rincorrendo il treno in marcia per spostarsi da un ovile all’altro lungo la linea ferroviaria. Il loro breve transito lasciava tracce odorose non facilmente eliminabili. Si arrivava a Belvì, sporchi, neri di fuliggine, con addosso l’odore caratteristico del formaggio di pecora, sul far della sera, alle sei circa. Giunti a casa c’era solo il tempo per un bagno, una tazza di caffelatte, e poi si andava a dormire lasciando al giorno dopo il piacere di ritrovare il paese, il verde della vallata e dei boschi, la frescura e i profumi della campagna, gli amici che si erano lasciati l’anno precedente. Era un rito che nel lento trasferimento, nel passaggio graduale dalla pianura verso la montagna, nel graduale modificarsi della vegetazione e delle colture, nel cambio della forma e della dimensione dell’orizzonte, nell’arrivo al calar del sole, aveva i suoi cardini capaci di attivare dinamiche psicologiche tanto insospettate quanto ricche di contenuti emotivi positivi.

Ma se noi prendevamo quel trenino con tanta letizia, c’era chi vi saliva con ben altri sentimenti. Erano i tanti belviesi che lasciavano negli anni cinquanta il loro paese diretti al Nord, nel settentrione della penisola o all’estero.

Il disinteresse dello stato per zone così marginali, le difficoltà di un’economia agropastorale incapace di sfamare (anche solo sfamare) tutti, la mancanza di concrete prospettive di lavoro e di vita, dettero l’avvio a una emigrazione che falcidiò la zona delle migliori risorse intellettuali come delle braccia più forti. Pur bambino, ricordo che avvertivo inconsapevole il vuoto anche fisico che lasciavano quelli che partivano, nel bar, nella piazza, nei discorsi di chi restava. E per le strade del paese si vedevano solo vecchi e bambini. Il paese cedeva la sua linfa vitale, perdeva vita, ammutoliva. Si respirava nell’aria una sorda rassegnazione che spegneva le risa, i sorrisi, le parole sino a farle diventare bisbigli, sussurri, preghiera. E i rintocchi delle campane al vespro parevano accompagnare un’agonia mortale, poiché quasi più nessuno tornava festante dalla campagna a godersi il meritato riposo. Così muore un paese. Perché perde i suoi figli, perché li lascia andare per il mondo, perché non può trattenerli. In una sofferenza che fa male a entrambi, in una solitudine che niente e nessuno può colmare. E anche a Belvì è successo.

Ma in estate tutti tornavano.

I vicoli, le strade, la piazza sembrava non potessero contenerli tutti. Ciascuno portava con sé gli emblemi della nuova condizione sociale raggiunta: l’auto, una macchina fotografica, un abbigliamento volutamente vistoso. Era un intrecciarsi di racconti che lasciavano a bocca aperta chi non aveva ancora conosciuto la grande città, la fabbrica, le moltitudini, il guadagno certo. Ma nessuno diceva dei disagi, delle sofferenze, della disperazione, della nostalgia per quelle quattro case addossate sul quel verde costone della vallata, e delle lacrime calde e amare che inaridivano il cuore e impedivano il volo.

Il sogno comune era di tornare, di riprendere la vita precedentemente interrotta, ma ad ogni anno che passava, il proposito si rivelava sempre più irrealizzabile. E il distacco, inizialmente pensato come momentaneo, assumeva i contorni di una separazione definitiva.

Al di là della colorita confusione che tanti arrivi creavano, si poteva intravvedere come il rituale del ritorno estivo, di chi a malincuore era andato altre il mare a cercare fortuna e lavoro, aveva un alcunché di stereotipato anche nella malinconia che ne venava il fondo.

Il primo giorno del rientro era il momento più felice. Già l’arrivo in piazza, tappa obbligata per mettere tutti al corrente, era una festa. I ragazzini circondavano la macchina (se ne vedevano poche) quasi impedendo agli occupanti di scendere, poi arrivavano i grandi ed erano strette di mano, abbracci, sorrisi, felicitazioni. Le due domande di rito erano il chiedere a quando risalisse l’arrivo e quanto sarebbe stata la durata del soggiorno (pareva ci si volesse assicurare di una permanenza breve), mentre si rimandavano ai giorni successivi gli approfondimenti circa la sistemazione nella nuova città, il lavoro e quanto altro avrebbe potuto incuriosire. Poi c’era l’arrivo alla casa paterna, o alla propria riaperta all’occasione dai parenti o da amici di vecchia data. Era il momento più gioioso, più intimo. Riaffioravano e riemergevano i sentimenti profondi, ritrovavano forma e parole le emozioni di quei rapporti che la lontananza aveva interrotto. In tutto ciò vi era un velo di malinconia, poiché ciascuno sapeva che di lì a poco un nuovo distacco avrebbe ancora una volta frantumato quel rinnovato sentimento. Era il momento del confronto con il padre, del lungo abbraccio della madre, del dialogo e degli scherzi con i fratelli, delle chiacchiere felici. Il momento del contatto fisico con chi si vuole bene. Una lunga cena, buone cose in tavola, un vino d’annata stappato per l’occasione, tanta tenerezza, erano il miglior viatico per un sonno, nel silenzio dei rumori consueti del piccolo paese, senza affanni, pieno, compiuto come quello di un bambino! Il comodo risveglio il giorno dopo aveva ancora il profumo dell’accoglienza della sera precedente. Più tardi, in piazza, ancora qualche saluto di benvenuto da chi non si aveva avuto modo di incontrare il giorno prima. Da quel momento cominciava a prendere dimensione quel vuoto che caratterizza il non far niente di chi è estraneo alla quotidianità, di chi non vive più i problemi del luogo, di chi sa che può disturbare gli altri che duramente lavorano. L’obbligatorietà al non far niente in una comunità dove si lavora quando il lavoro c’è, nella quale le vacanze sono solo quelle degli altri, rendeva ancora più estranei. La perdita di confidenza con la campagna e il bosco accentuavano il distacco, poiché la gran parte della gente in estate lavora proprio in campagna. Il bighellonare tra il bar, la casa, la strada, in compagnia dei vecchi, dei bambini o di altri emigrati, diventava nei giorni seguenti sempre più pesante, noioso, deprimente. Bruciati in poche ore tutti i contenuti emotivi del ritorno, non restava che aspettare il giorno della nuova partenza. In sordina si riprendeva la via dell’esilio e quel nuovo distacco aveva in sé un che di liberatorio, anche se infinitamente triste. Molti non sono più tornati.

Chi emigra perde una parte della propria vita che nulla e nessuno può restituire: tagliare le proprie radici è un po’ morire, e accade spesso che non ci si adatti al nuovo ambiente. Ci si consuma allora in una nostalgia struggente che impedisce di capire, di partecipare, di crescere, di amare.

Ma se è vero che non bisogna precludersi la possibilità di vivere in ogni parte del mondo, lasciandosi condizionare da remore e da sentimentalismi, è altrettanto vero che si deve tener presente l’esistenza di quel legame “biologico” con la propria terra, con il proprio paese, e che è capace di influenzare le scelte di vita dell’individuo.

Io l’avevo scoperto per caso quando, diciottenne, partito per un viaggio in Germania mi ero ritrovato alla stazione di Strasburgo, a decidere se recarmi a Parigi, oppure a Ginevra. Eravamo sotto Natale e avevo improvvisato quella vacanza contro il parere di mia madre, che desiderava avere tutta la famiglia riunita. Nell’attesa di capire cosa volevo fare, seduto nella sala d’aspetto, mi divertivo ad ascoltare i discorsi degli emigrati che sempre più numerosi la affollavano.

Mi spostavo per sentire.

‒ Ho solo pochi giorni, se torno in ritardo mi licenziano, ma è da un anno che non vedo mia madre e mio padre. Quando sono andato via l’ultima volta ho pensato che non li avrei più rivisti.

‒ Io torno a casa per tre settimane, ho bisogno di un poco di cielo azzurro, come quello che c’è al mio paese. Non mi sono mai abituato a questo grigio, al freddo. A questa gente.

‒ Forse riesco a non tornare quassù. Mi hanno promesso un posto.

‒ Mia moglie mi ha scritto che il maggiore non frequenta più la scuola, che vuole andare a lavorare in campagna. Mi sto spezzando la schiena perché lui e gli altri non patiscano questo mio tormento. Non so cosa fare. Vado per vedere se riesco a mettere le cose a posto.

‒ Quando sono venuto pensavo che poi non fosse così diverso. Ma a poco a poco ho incominciato a morire dentro. Ero un tipo allegrone. Mi sono intristito, mi è venuta una nostalgia che nulla mitigava. Neanche le donne mi piacevano più. E sì che sono più belle di tutte le mie compaesane. Mi sono trovato a piangere, la notte, senza sapere perché. Non ci ritorno, preferisco morire di fame e crepare, ma non voglio più vivere così.

Queste ultime parole mi lasciarono estremamente confuso oltre che commosso. Possibile che uomini grandi, segnati dalla vita, fossero condizionati dalla nostalgia per il loro paese sino a quel punto? Ma valeva tanto quel legame? Improvvisamente si squarciò un velo. Mi ritrovai a condividere la loro ansia di rivedere la loro casa, la loro gente, il loro paese, la loro terra, e in un attimo mi capacitai del significato di quell’attaccamento.

Feci il biglietto per Genova e riuscii a tornare a casa, per la gioia di mia madre, la notte di Natale.

Mi rendo conto oggi che questo legame, se da giovani naviga marginalmente agli accadimenti, con l’andare degli anni si palesa in tutta la propria forza e s’impone a dispetto delle abitudini più consolidate. Si può anche abbandonare la nuova famiglia che si è formata col matrimonio per il desiderio di tornare alle proprie radici. È un inarrestabile moto di ricerca verso la propria vera identità. Un tentativo talora disperato di riconciliazione con se stessi e con quella terra che si sa di aver, anche se involontariamente, tradito. Mi è chiaro il gesto di chi prende una manciata di terra umida e la porta alle narici per assaporarne i profumi. Chi una volta l’ha fatto ha capito uno dei valori fondamentali della vita.

Sorseggiando il caffè rivolsi lo sguardo, oltrepassando la piccola finestra, alla piazza del paese, vero cuore pulsante del piccolo borgo. Di forma circolare, era chiusa per due terzi dalle case, mentre di fronte si apriva all’intera vallata e alla montagna, in una posizione strategica irripetibile. Il grande muraglione di pietra che l’aveva resa più ampia era il sedile preferito di chi vi si recava per prendere il fresco, chiacchierare, stare a guardare chi passava o solo aspettare che il tempo passasse. Un muro e un paesaggio che credo siano stati complici, con le ombre della sera, di tante storie d’amore. Anch’io su quel muraglione sperimentai le prime innocenti emozioni. Era capitato, appena ragazzino, durante le festa del patrono. Un complessino si esibiva illuminato da potenti fari che per contro lasciavano buia la piazza. Accanto a me, sul muraglione, era seduta una mia coetanea che mi piaceva. Ricordo che per quasi un’ora tentai di incrociare il mio mignolo col suo in un susseguirsi di ondate di eccitazione che mi facevano venire le vertigini. Non ci fu nessun seguito ovviamente, ma la grande eccitazione di quel contatto, più immaginato che vissuto, accentuò la curiosità verso l’inesplorato mondo femminile.

Nella piazza attraversata dalla provinciale, che non poteva non chiamarsi Via Roma, confluivano la strada che portava alle campagne del fondo valle e quella che saliva dalla stazione. La piazza era l’epicentro dal quale si diramavano a raggiera le strade interne del paese, ognuna con le proprie viuzze e i propri vicoli a delimitare un peculiare cantuccio; veri e propri piccoli rioni cresciuti attorno alla zona più vecchia del paese, il nucleo centrale denominato sa corte, vero e proprio “oppidum”, costruito per difendersi dalle bande che molti secoli prima imperversavano nelle montagne. Ogni rione aveva una sua fisionomia, in funzione del periodo nel quale era sorto, e ripeteva in piccolo la struttura dell’intero paese, aveva cioè la sua piazza, spesso solo uno slargo tra le costruzioni, la strada principale (la via) con le secondarie (i vicoli), le sue botteghe. Le case, tipicamente montane, realizzate in vari stili, da quelle più antiche in scisto senza malta, a quelle intonacate in calce e dipinte a colori forti, sino a quelle del ricco latifondista con ornati di cemento di delicata fattura, erano in genere piccole e raccolte, con solai in legno e tetto in tegole. Finestre e porte, per le loro ridotte dimensioni, richiamavano la modesta statura degli avi. Alcuni vicoli terminavano su cortili nei quali nel tempo si era creato un intreccio di scale, ingressi, passaggi, dimostrativi della stretta comunione di vita di chi vi abitava.

Sotto il paese, la piccola stazione ferroviaria, costruita nel secolo precedente e ancora oggi in funzione, mantiene viva sul selciato della banchina l’impronta di quanti erano partiti mesti all’alba e giunti lieti al tramonto.

Mi sorpresi a pensare che per quanto piccolo fosse il paese vi erano strade e luoghi che mai avevo frequentato, sia da bambino che da adulto, e con essi anche la gente che li abitava. Una sorta di ridotta area di esplorazione, inspiegabile specie se si considera che gli spostamenti in campagna, certamente molto più vasta, trovavano un limite solo nel tempo a disposizione.

Non trovo ancora oggi una plausibile ragione a questo comportamento, se non nel fatto che la frequentazione di quelle zone del paese fosse connessa ai quei legami di parentela che non avevo. E non bastava l’amicizia con un coetaneo per poterlo andare a trovare. Portare a casa qualcuno significava offrirgli qualche cosa da mangiare ed era possibile che non ve ne fosse.

Nel paese non c’era mai stata ricchezza. La limitata estensione del suo territorio, i pochi terreni agricoli fertili, il ridotto numero di capi di bestiame, la scarsa produzione agricola, non potevano produrre benessere per molti. Pochi latifondisti godevano della gran parte delle risorse prodotte, mentre tutti gli altri dovevano accontentarsi di quel che restava. A nessuno mancava un boccone di pane, ma proprio un boccone, poiché la solidarietà che vive nelle piccole comunità sapeva intervenire con discrezione nei momenti di necessità. La vita di molti era, per così dire, tirata all’osso sia in senso fisico, erano tutti magrissimi, sia nella disponibilità di indumenti, suppellettili, mobili. Nella maggioranza delle case l’arredamento era costituito da un tavolo, qualche sedia, una credenza e brande con i materassi di crine. Cosa serviva di più? Possedere l’essenziale era già una grande soddisfazione. A quei tempi non credo si conoscesse l’esistenza del superfluo.

Chi possedeva più di un vestito era già un privilegiato. Tutti gli altri lavavano la sera gli indumenti che avrebbero messo il giorno dopo. E non tutti avevano un paio di scarpe.

Un paio di scarpe! Per la gran parte dei ragazzi del paese era un sogno che si realizzava di solito quando si poteva prevedere che il piede non sarebbe più cresciuto. I più fortunati mettevano quelle che i fratelli maggiori avevano smesso perché inservibili. Ma era già una conquista. Fatte interamente a mano dai tre ciabattini del paese, che impiegavano almeno due giorni per completarne un paio, erano una bellezza. Tutte in cuoio marrone, comprese le stringhe, bisognava tenerle sempre morbide ricorrendo al grasso di bue che si recuperava dal macellaio. Talora chi le aveva avute da poco, per non consumarle, se le toglieva e girava scalzo portandole come una bisaccia sulle spalle.

Erano tempi nei quali non si buttava via nulla, tutto veniva riciclato, riutilizzato, conservato, da una bottiglia di vetro a una striscia di stoffa non del tutto consunta. Tutto poteva tornare utile un giorno o l’altro. Da un paio di vecchi pantaloni di adulto si potevano ricavare due pantaloncini per bambino, da una federa una blusa di cotone, da un lenzuolo liso un camicione. Per non parlare degli attrezzi! Una scure, una falce, un paio di pinze, un martello venivano utilizzati per più generazioni. Anche un chiodo, una vite, un bullone venivano utilizzati più volte. Non v’era oggetto che fosse utilizzato solo in un modo.

I pensieri tornarono alla piazza ora silenziosa che aveva assistito all’evolversi delle vite degli abitanti di Belvì. Le corse e le grida infantili che in lei erano occorse si erano confuse e mescolate con i sussulti del cuore dei giovani, con i discorsi seri degli adulti, con la malinconia dei vecchi. Quella piazza era stata il teatro delle speranze, delle illusioni, delle paure, della rabbia, della disperazione, come della gioia e della felicità dei belviesi. Tanti con la complicità di quel luogo avevano unito i loro destini, altri ancora avevano visto scivolare le proprie esistenze l’una sull’altra senza mai un contatto e senza che restasse traccia alcuna. In quella piazza chi arrivava alla soglia della vecchiaia sedeva ad attendere, ormai senza timore, l’arrivo dell’ultima compagna.

Anche la mia infanzia e parte della giovinezza avevano trovato in quel luogo il loro compimento.

La casa natia, contigua a quella di mia zia Tana, si affacciava sulla piazza, occupandone la posizione centrale. Come nei paesi di montagna essa si sviluppava verticalmente. Erano tre piani più un basso scantinato, destinato a legnaia e deposito, che si apriva, proprio nel cuore della piazza. E appartiene a questo scantinato la prima immagine, il primo ricordo nitido della mia infanzia.

Avrò avuto, sì e no, due anni e mezzo. Era di pomeriggio, la giornata era calda. In compagnia di quella che era allora la donna che aiutava nelle faccende domestiche, eravamo scesi nello scantinato dove era ubicata una latrina alla turca alla quale si accedeva salendo due alti gradini. La donna vi si era accoccolata, non preoccupandosi della mia presenza, dopo aver sollevato le vesti per fare la pipì. Io, da sotto, vedevo le sue nudità, ma, non contento, chiesi con un “Fammi verere, fammi verere”, una più ampia prospettiva.

Quella donna, che poi ebbi a considerare la mia seconda madre per l’amore che nutrì e riversò nei miei confronti sino agli ultimi giorni della sua vita, si chiamava Severina, Severa per tutti quelli che l’hanno conosciuta.

Da ragazza era stata piuttosto chiacchierata anche per essere stata a servire a Cagliari presso alcune famiglie benestanti. Bastava poco allora! Mia madre con l’intento di allontanarla da una strada giudicata dai più, impercorribile, la prese al proprio servizio quando aveva circa venticinque anni. Portava l’acqua dalla fonte a casa, con le brocche di coccio. E dava una mano ad accudire i primi figli.

Non era stata mai bella, ma aveva un’espressione luminosa. Quella di chi non ha mai conosciuto l’ipocrisia, l’inganno, la malafede. Di sé diceva che era simpatica. “La simpatia è più importante della bellezza” sosteneva. La pelle liscia e morbida del viso che le conobbi era il frutto di un accidente che avrebbe potuto produrre ben altri effetti. Mentre lavava una borraccia con acido muriatico, il tappo era saltato e il liquido le aveva raggiunto il volto ustionandolo e coprendolo di grandi bolle piene di liquido. A guarigione avvenuta, al posto della pelle scura e piena di brufoli preesistente, ne era affiorata una candida e trasparente che l’avrebbe poi accompagnata per il resto della vita. Un evento voluto dal destino affinché io ne godessi. Né alta, né bassa, un poco robusta, portava i capelli neri e lunghi attorcigliati in una crocchia che non scioglieva quasi mai.

Aveva una sua personale filosofia di vita che esternava attraverso massime e lapidarie affermazioni. Questo modo di esprimersi, in lei che aveva frequentato solo la seconda elementare, le conferiva, agli occhi dei compaesani, un’aura di cultura della quale andava fiera. Il suo merito era stato quello di saper far tesoro di tutti gli insegnamenti di mia madre, e in tanti anni di vicinanza, quasi cinquanta, non era pensabile che non se ne vedessero i frutti. E poi da giovane aveva praticato alcune letture particolari, come l’Ars Amatoria di Ovidio, che le permettevano uscite tanto brillanti quanto invidiate.

Riconoscente nei confronti di mia madre, ne era diventata l’ombra, una sorta di ancella disposta a sfidare anche le ire di mio padre per sostenere il punto di vista di quella che chiamava sa meri (la padrona). Severa aveva scelto di realizzare la sua vita in funzione de sa meri. Aveva legato la sua vita a quella di mia madre con un rapporto univoco, unidirezionale: era consapevole che mia madre avrebbe potuto in ogni momento fare a meno di lei, mentre lei non sarebbe potuta sopravvivere senza mia madre. Sono scelte queste che meravigliano chi costruisce per sé, poiché annullano ogni prospettiva di vita personale e alimentano esclusivamente la crescita altrui. Ma chi decide di compierle, se è vero che rinuncia a una parte di se stesso, guadagna una certezza impagabile: conosce esattamente lo scopo del proprio vivere e ha solo il compito di attuarlo. Per Severa, al di fuori di mia madre, poi sono esistito io e il suo sogno di una casa in città, per poter fare qualche settimana di vacanze al mare d’estate. Null’altro.

Nata in una famiglia poverissima, da ragazza era stata a servizio in città presso alcune famiglie di notabili e in città aveva fatto le prime esperienze sentimentali. Raccontava di alcuni militari che la corteggiavano passeggiando sotto le finestre della casa, di domenica. Qualcuno aveva fatto in modo di farle pervenire più d’una missiva. Cominciavano tutte con “gentilissima signorina”, proseguivano con “sin dalla prima volta che l’ho vista”, paventavano una perdita di sonno, di interessi per la vita, e concludevano con l’invito a far cessare quel tormento, accettando un appuntamento per la domenica pomeriggio, giorno di libera uscita per entrambi. Sono convinto che quei pomeriggi domenicali furono per lei gli unici momenti felici della sua giovinezza, per altri versi dura e avara di gioie.

Rientrata in paese, i suoi modi urbanizzati avevano attirato su di lei le attenzioni dei non più giovani, poiché i coetanei, succubi delle chiacchiere sulle presunte esperienze cittadine e considerando la sua povertà, non la prendevano in considerazione per il matrimonio. Comunque corteggiata, credo si concesse solo a chi le era gradito. Ma allora le donne non potevano né dovevano avere libertà di scelta: se si offriva a un uomo che le piaceva non si capiva (è il tipico pensare dell’uomo stupido) perché non dovesse darsi a tutti. E qualcuno pensò che bastasse usare la forza per averla. Mentre tornava una sera da un paese limitrofo, fu avvicinata da un possidente belviese che dapprima la stuzzicò con lusinghe e promesse, poi, rendendosi conto del suo totale disinteresse, l’aggredì tentando di violentarla. Lei si difese efficacemente assestandogli un calcio ai coglioni e lasciandolo dolorante sulla strada. Quella storia finì in pretura e, pur risoltasi con la condanna dell’aggressore, da quel momento segnò la sua vita.

Prese servizio presso la nostra famiglia proprio in quel periodo. Il suo lavoro principale era quello di portare l’acqua dalla fonte per le necessità della famiglia. La brocca veniva portata diritta sulla testa frapponendo un cercine per ammorbidire il contatto. Era un compito esclusivamente femminile, e occorreva un discreto equilibrio per evitare di perdere contenitore e contenuto nell’affrontare il selciato scivoloso che lastricava i vicoli del paese. S’imparava da bambine, e Severa non aveva fatto eccezione. Si trattava di acquisire una competenza da offrire poi sul mercato, una specie di titolo minimo ma indispensabile.

Durante gli anni della guerra, in assenza di mio padre richiamato alla armi, Severa fu un vero sostegno per mia madre, con la quale condivise tutto: paura, preoccupazioni, difficoltà, ma pure qualche momento di serenità e l’industriosità di chi aguzza l’ingegno per sopravvivere. S’inventarono imprenditrici. Su un’idea di mia madre riciclarono un telo di sdraio che tagliarono a strisce per produrre zoccoli, che poi barattarono con prodotti alimentari e sapone! Severa propose di tenere a casa una capra. Con tre bambini piccoli il latte era indispensabile. Quello che restava veniva ceduto in cambio di altri prodotti. Non v’era poi erba dei campi o radice dei boschi che non fosse stata assaggiata per verificarne la commestibilità. I miei fratelli maggiori crebbero soddisfacendo l’appetito con abbondanti minestroni di erbe, tanto che a mia madre fu affibbiato il titolo di regina de sa mimmirida (un’erba comune delle campagne di quei luoghi che nessuno aveva mai mangiato).

Quando io nacqui, Severa, ormai esperta nell’allevare i bambini, era nell’età in cui ogni donna avverte il desiderio di maternità. Accolse la mia venuta come quella d’un proprio figlio ed ebbe ampio spazio nel crescermi poiché mia madre dedicava particolari attenzioni al figlio che mi aveva preceduto, mio fratello Gianni. Era suo prediletto poiché quella nascita aveva rinsaldato il rapporto con mio padre rientrato a casa dopo tre anni di assenza. Accadde poi che i miei genitori si trasferirono in città per motivi di lavoro, io avevo allora due anni, e di conseguenza dovettero affidare me e gli altri due fratelli più piccoli alle cure di mia nonna paterna, venuta dalla Sicilia, a mia zia, cugina di mio padre e anche lei siciliana, e ovviamente a Severa.

Mi crebbe come si cresce un figlio e radicò in sé un profondo legame che mai ebbe una crepa, un tentennamento, un ripensamento. Forse il tentativo di educarmi era troppo influenzato dal grande affetto, forse non possedeva quella cultura e quell’esperienza che orientano l’individuo in modo ragionato, conforme (e lei non era proprio conforme), ma è certo che si adoperò con tutte le sue forze per rendermi felice, talvolta rinunciando ai suoi stessi desideri. Mai ebbe a spazientirsi e mai la vidi rivolgersi contro di me anche quando avevo torto. Come una madre barbaricina, che anche quando il figlio ha abbandonato la retta via continua a proteggerlo e difenderlo, soleva ripetere che “i figli si amano soltanto”, e se agli occhi della ragione questa affermazione suona sbagliata, per il cuore di una madre è l’unica possibile. Tutto ciò è poco comprensibile a una mente maschile, poiché il rapporto tra madre e figlio appartiene a una classe di pensieri che la logica maschile non riesce a penetrare, in quanto quel rapporto è un fatto viscerale che non ha spiegazioni. Solo chi l’ha vissuto e lo vive sa. Ecco perché sono sempre stato convinto che una madre possa contrapporsi anche violentemente al marito per difendere il figlio, che è carne della sua carne, mentre il marito è comunque un estraneo!

Avevo iniziato a mettere a dura prova la sua pazienza da prestissimo. Ho ancora vivida l’immagine di lei che dopo avermi messo a letto, mi cantava la ninnananna e mi carezzava i capelli per farmi addormentare. Io mi sforzavo di restare sveglio per prolungare quei momenti piacevoli e tenevo un occhio socchiuso in modo che appena lei, credendo di essere riuscita ad avviare il mio sonno, tentava di allontanarsi dal letto, la richiamavo all’ordine come un dispotico tiranno.

‒ Ieie (così la chiamavo), Ieie.

‒ Ma non dormi ancora? ‒ mi diceva.

E lei paziente si rimetteva e sedere e aspettava che fossi veramente addormentato.

Con mia nonna Caterina, la madre di mio padre, ebbe a condividere i problemi della mia crescita, della mia educazione, ma anche la gioia di avere qualcuno da amare profondamente e al quale dedicare la propria vita.

Mia nonna Caterina. Al ricomparire della sua immagine nella mente un moto di commozione tanto improvviso quanto violento mi’infiammò gli occhi. Anche lei aveva dedicato a me gli ultimi anni della sua vita! Eppure, me ne rendevo conto in quel momento, poche volte richiamavo il suo ricordo. E sì che il pensiero di lei molto agitava il mio animo! Lo avevo constatato tutte le volte che andavo al cimitero a portare i fiori sulla sua tomba. Di fronte a quella lapide bruciata dal sole non riuscivo a trattenere le lacrime, e senza pudore le parlavo come se fosse lì ad ascoltarmi. Le chiedevo se stava bene, la informavo sulle mie cose, commentavo che sulla lapide non si leggeva più il suo nome e le promettevo di farla cambiare. Poi sistemavo i fiori scegliendo con cura i più belli (gli altri andavano al nonno che era accanto), recitavo una preghiera e andavo via salutandola con un “ci vediamo presto” confidenziale a bassa voce. Uscendo dal cimitero avvertivo un senso di pienezza, che sapevo venire da lei, come se mi avesse donato parte della sua energia. Una coccola il più.

Di cognome faceva Evola. Tipico cognome siciliano. Era nativa come mio padre di Balestrate, una cittadine affacciata sul mare a qualche decina di chilometri da Palermo. Vi soggiornai quando avevo cinque anni. Mio padre aveva deciso per tutta la famiglia, un breve soggiorno nel suo paese natio, senza rendersi conto che vi tornava da emigrante, anche lui ormai estraneo alla vita dei luoghi. Sarà per questo motivo che quel ritorno alle origini, quell’esperienza non fu mai più ripetuta. Ricordo poco o nulla: la grande spiaggia, proprio sotto la stazione ferroviaria alla quale si accedeva tramite un sottopassaggio lungo e buio; la chiesa e il grande altare, con un colonnato simile a quello di San Pietro a Roma; una via nella quale probabilmente abitavamo e forse una visita a casa di qualche parente. Null’altro.

Mia nonna assieme al nonno era venuta a Belvì qualche anno prima che io nascessi. Probabilmente mio padre, resosi conto che non sarebbe più tornato in Sicilia, li fece venire perché trascorressero con lui e la sua nuova famiglia gli ultimi anni della loro vita. Mio nonno morì poco dopo il suo arrivo, io avevo forse due anni, mentre mia nonna gli sopravvisse sino al compimento del mio settimo anno.

Di mia nonna rammento l’aria e alcuni tratti. Non alta, un poco voluminosa, aveva i capelli bianchi, come tutte le nonne, e un grosso gozzo tiroideo che però non ebbe mai a destare in me nessuna impressione, a dimostrazione di come per i bambini il mondo è, ha la sua ragion d’essere, anche se non la si comprende, per i bambini non esistono canoni di forma e bellezza predeterminati. Lei era così, punto. Aveva una voce roca, morbida. E con quella voce, per tante volte, davanti al caminetto ci aveva raccontato le gesta dell’Orlando Furioso. Il modo era quello dei cantastorie, quello delle sue origini siciliane: figurato, colorito, drammatico, a puntate, in modo da restare col desiderio di riprendere il filo interrotto del racconto. Accadeva spesso che nel bel mezzo del racconto si addormentasse. Passava qualche minuto prima che spazientiti la risvegliassimo dall’improvviso sopore.

‒ Nonna, nonna! ‒ la chiamavamo, prima sottovoce, poi più decisi, tirandole le lunghe gonne. Lei allora si svegliava e con tutta tranquillità riprendeva da dove aveva interrotto. Ricordo poco delle avventure che raccontava, ma è certo che lei ci aveva messo del suo, che le modificava di volta in volta, che le complicava o semplificava a seconda del tempo che doveva dedicarci. Senza mai stancarsi. Con una disponibilità da far credere che il ruolo di nonna cantastorie fosse l’unico motivo della sua esistenza.

Come Severa, anche lei apparteneva a quelle persone che delimitano la propria vita in un campo e non solo non scavalcano mai il confine che si sono costruite, ma non lo oltrepassano neanche con lo sguardo.

Come per Severa anche per lei rappresentavo il privilegiato destinatario del suo affetto, che non ebbe mai a mascherare, suscitando le rimostranze e l’invidia dei miei fratelli. “Cocco di nonna”, così mi canzonavano tutti insieme raggruppati al fondo del lungo andito delle casa di città, mentre io dall’altra non sapevo cosa ribattere. Poi arrivava mia nonna, mi metteva sotto il suo scialle, e mi portava via, nella sua camera, dicendo in siciliano:

– Vieni con me figlio mio -.

Credo che tutto quell’amore mi abbia protetto nei confronti di molte situazioni avverse occorse nella mia vita, mi abbia tenuto a galla, mi abbia preservato da pericolose deviazioni. Tutto quell’amore ebbe a generare e fortificare in me un nocciolo duro di bontà, di ottimismo, di allegria, di gioia, che ancora oggi non ho dissipato.

Dormivo con lei nella stanza che era stata dei miei genitori, nella casa di Belvì. Appeso sulla parete sopra la testata del letto matrimoniale vi era un quadro raffigurante un San Giuseppe in ginocchio accanto al bambino Gesù. Ogni sera, prima di dormire, facevo la preghiera davanti al quadro e capitava qualche volta che, per intercessione della nonna, San Giuseppe mi lanciasse delle caramelle. Non ho mai dubitato che venissero dall’icona, non vi era nulla di anomalo nel fatto che se mi ero comportato bene fossi ricompensato dal Santo. Da adulto, più volte ebbi modo di chiedere conferma a Severa del fatto che fosse mia nonna a lanciare da dietro le mie spalle le caramelle, ma nonostante la conferma non mi dispiaceva pensare alle caramelle lanciate dal santo.

Per il mio terzo Natale di vita ebbi modo di formulare la richiesta di un dono: chiesi e ottenni un kaki, che trovai la mattina del giorno dell’Epifania sul comodino, in un piattino. Felice di essere stato accontentato, lo divorai all’istante. Ma, dopo qualche minuto, mi resi conto che mentre tutti gli altri giocavano felici con il loro dono io non l’avevo più: mi era rimasto tra le mani nient’altro che un picciolo. Ero un poco deluso, non capivo che cosa non avesse funzionato. Avevo avuto ciò che volevo! Mia nonna, che aveva compreso tanta delusione, mi prese sulle sue ginocchia e per consolarmi mi raccontò un fiaba inventata ad hoc. Un racconto lieve, che narrava di come un sogno ad occhi aperti vale più d’ogni realtà, mi fece dimenticare l’amarezza e la delusione, e mi convinse che mai e poi mai avrei dovuto smettere di sognare. E non ho mai smesso.

Ricordo mia nonna sempre in casa: potrei dire che non usciva mai. Credo non fosse riuscita ad inserirsi nell’ambiente del paese, un po’ perché non capiva il sardo (allora pochi parlavano l’italiano), un po’ perché, sradicata dalla sua terra che aveva cultura, tradizioni, costumi molto differenti, non le era stato possibile mettere insieme cose tanto diverse.

Credo di averla amata con l’interezza che contraddistingue gli affetti infantili e di esserne stato ricambiato allo stesso modo. Sono certo che quando morirò sarà lì ad aspettarmi a braccia aperte, assieme a Severa, per facilitarmi il passaggio in quella nuova dimensione.

In quel periodo, avevo tre anni, frequentavo l’asilo. Severa mi accompagnava ogni mattina trascinandomi quasi di peso. Non vi andavo volentieri perché mi annoiavo e mi sentivo a disagio. Ciò che mi disturbava erano le lunghe ore passate seduti ad arrotolare lunghe e sottili strisce di carta, quella usata per il telegrafo, che gentilmente il capostazione regalava alla madre superiora. Tutta la mattina ad arrotolare questa sottile striscia di carta liscia e delicata che si rompeva a ogni minimo movimento. E non doveva assolutamente succedere! Completato l’avvolgimento, si formava un disco di qualche centimetro di diametro che era permesso trasformare, spingendone il centro con un dito, in un cono che allungandosi finiva per disfare tutto. E si ricominciava da capo. Non ho ricordi di altro genere di quella frequentazione e suppongo che le mie vivaci rimostranze convinsero mia nonna a non mandarmici più.

Certamente preferivo accompagnare Severa quando si recava al fiume per lavare i panni. La località si chiamava in su e sa mongia, che significava “nella proprietà della suora”, e si trovava a valle dell’abitato non distante dal paese. Mentre le donne lavavano battendo su pietre piatte e lisce la roba, fra coetanei ci si divertiva a costruire dighe sul greto del fiume, un torrente per la verità, nel tentativo di fermare la dolce irruenza del flusso d’acqua. Il gioco finiva quando, tutti bagnati, tra i rabbuffi delle donne, venivamo spogliati e messi ad asciugare con i nostri stessi panni. A mezzogiorno si mangiava, e al pomeriggio, quando la roba stesa sui rovi era asciugata, si tornava a casa. Il fiume era un momento di grande aggregazione anche tra le donne: nelle tante ore lì trascorse avevano modo di raccontarsi, di confrontarsi, di darsi suggerimenti, di consigliarsi. Il dialogo era aperto e ciascuna poteva dire la sua. Di uomini al fiume non ne ebbi mai a vedere.

Quando fu costruita alla periferia del paese, vicino alla chiesa, una grande vasca (sa balza) in un locale coperto, accanto al piazzale della chiesa, allora il rituale del giorno al fiume scomparve. Le donne preferivano al fiume la vasca, più vicina e più comoda, oltre che al coperto. Per noi bambini era comunque divertente andare a osservarle mentre lavavano in un vociare ancora più confuso, considerata la ristrettezza dell’ambiente, fatto di pettegolezzi, allusioni, risate sonore, sorrisi maliziosi. Ogni tanto capitava che due bisticciassero, e allora lo spettacolo era assicurato! E mentre al fiume la presenza maschile era totalmente esclusa, alla vasca non era infrequente che qualche giovanotto si affacciasse per chiamare l’innamorata a far due chiacchiere.

Avendo smesso di andare all’asilo, era il tempo dei miei quattro cinque anni, trascorrevo le giornate in casa a seguire mia nonna o Severa nello svolgimento delle faccende domestiche. Cercavo di rendermi utile dando una mano nel rifare i letti, rassettare, spazzare i pavimenti di legno che dovevano essere inumiditi prima di passare la scopa, portare la legna per il caminetto che d’inverno era sempre acceso. Qualche volta però, con la scusa di andare al forno a vedere le donne che facevano il pane, riuscivo a sgattaiolare fuori di casa per unirmi ai miei coetanei e si andava in giro per le campagne vicine al paese o nei boschi. Gli spostamenti non erano tanto in funzione dell’interesse esplorativo o dei giochi che si decideva di fare, quanto in relazione agli appetiti o alla fame che si poteva soddisfare praticando ben conosciuti itinerari. Tra i compagni vi era chi conosceva ubicazione e produzione di ciascun orto della vallata, stato di maturazione dei prodotti e, soprattutto, movimenti del contadino. Bisognava essere sicuri che non ci fosse. Gli orti che agli inizi dell’estate profumavano delle fragranze di piselli, fave, pomodori, ravanelli, carote, lattuga e altre verdure, erano la tappa obbligata delle nostre scorribande. Non si faceva razzia, si prendeva solo ciò che si desiderava mangiare in quel momento, secondo una tradizione barbaricina allora a noi sconosciuta. In base a questa usanza, chi vive lontano dal paese (vedi pastori o latitanti) può approfittare di ciò che trova in campagna, nei casolari, negli ovili, a condizione che consumi solo ciò che gli serve per sfamarsi. Il poco di più è già un furto. Era capitato da adulto anche a me di aver fame mentre mi trovavo nel Supramonte e di approfittare del ben di Dio che v’era in un ovile non custodito. Chi mi accompagnava mi disse che potevo mangiare tutto ciò che desideravo e mi avvertì di non portar via nulla, ché non era costume e poi sarebbe stato meglio così. Meravigliato da tanta prudenza obiettai che tanto non mi avrebbe visto nessuno e che quindi sarebbe stato facile rubacchiare qualcosa di poco voluminoso. Ovviamente non prendemmo nulla. Mentre stavamo per lasciare l’ovile spuntò, da dove non ci fu possibile capirlo, il pastore che evidentemente aveva osservato ogni nostra mossa. Felice del nostro comportamento rispettoso di quella norma non scritta ci costrinse a consumare con lui qualche altro boccone chiacchierando amichevolmente. Il “mai fidarsi” in quella circostanza si rivelò tanto efficace quanto opportuno.

In quelle scorribande uno dei problemi per me, figlio d’insegnanti, era quello di dover portare le scarpe mentre gli altri della compagnia ne erano privi. Mi vergognavo un poco di questo privilegio. Nonostante il controllo di mia nonna, qualche volta riuscivo a togliermele uscendo da casa e le rimettevo al ritorno. Ma non essendo abituato, avendo delicata la pelle della pianta del piede, mi era difficoltoso camminare e seguire gli spostamenti del gruppo nei viottoli, negli orti, o nei boschi, dove era facile imbattersi in spine di rovo o nei ricci di castagno! Anche la ghiaia mi creava difficoltà. Ricordo un solo tratto di strada di campagna, poco distante dal paese, che percorrevo quasi con piacere perché era ricoperta da uno strato spesso di polvere soffice come il borotalco. Severa, che copriva queste mie fughe, ogni volta che tornavo si prendeva cura dei miei piedi, rifilandomi una litania di divertiti rimbrotti.

‒ Hai visto cosa ti succede a non mettere le scarpe! Quelli sono abituati e hanno la pelle dura. Guarda qui quanti graffi! Mi darai mai retta? ‒ m’interrogava mentre mi asciugava i piedi.

Io non rispondevo, non avevo nulla da dire, non avevo bisogno di giustificarmi. Mi beavo di quelle sue cure e facevo in modo, paventando una qualche spina conficcata in profondità, che si protraessero per un tempo lunghissimo. E lei non si stancava mai. Veniva interrotta solo da mia nonna che la richiamava ad altre faccende.

Questa cura dei miei piedi non la smise mai neanche quando, studente universitario, mi recavo in paese, solitamente nella stagione autunnale o invernale, per brevi ma intensi periodi di studio. La casa nel bosco lontana dal paese, in quei periodi semideserto, la mancanza di telefono e di televisione, il freddo pungente e umido che non invitava a uscire, evitavano ogni distrazione e favorivano una concentrazione proficua. Riuscivo a studiare l’intera mattinata e tutto il pomeriggio. Le soste erano quelle del pranzo e della cena. E proprio dopocena Severa si armava di una bacinella di acqua calda, un tocco di sapone da bucato, un asciugamano per lavarmi e massaggiarmi i piedi. Seduta davanti a me su uno sgabello basso eseguiva con cura l’insaponatura, il lavaggio con risciacquo, l’asciugatura e infine un delicato massaggio. In quel frangente di solito stavo in silenzio per non perdere nulla di quel sottile piacere. Fantasticavo a occhi aperti, riflettevo, meditavo. Oppure scrivevo. Lo facevo con parsimonia anche se il soggiorno era particolarmente lungo. Erano lettere indirizzate all’innamorata di turno. Ricordo una volta, non sapendo cosa scrivere, appuntai sul foglio bianco le sensazioni che destava in me la natura che si andava risvegliando. Non rilessi nel chiudere la busta ciò che avevo scritto. Al rientro in città, una settimana dopo, mentre mi recavo all’appuntamento con la destinataria della missiva, mi rammaricavo di non averle scritto qualcosa di personale. Quanto avevo appuntato mi pareva anonimo e insignificante. Grande fu la mia sorpresa quando lei mi buttò le braccia al collo festante e felice per la bellissima lettera ricevuta. Stupito non ebbi il coraggio di chiederle di farmela rileggere, e non ricordando cosa avessi scritto mi domandavo come e perché fossi riuscito a suscitare una reazione tanto gradita. Potei leggerla dopo diversi anni, a relazione ormai terminata, solo dopo molte insistenze. Scorrendo le righe di quel foglio mi resi conto di aver dipinto con le parole un piccolo prezioso affresco. Non volle mai darmene copia.

Nel silenzio di quelle lunghe sere d’inverno, silenzio vivo perché il crepitio del fuoco, i sibili del vento, la pioggia battente sulle tegole lo animavano, in solitudine con Severa davanti al caminetto nel quale canticchiava un fuoco scoppiettante, soddisfatto di avere utilizzato proficuamente tempo ed energie, provavo un senso di pienezza che con difficoltà ho ritrovato più avanti negli anni, sentivo il destino benevolo e mi preparavo con cura a rendermi parte attiva nella costruzione di un mondo felice. Questo era l’intendimento, l’obiettivo! Allora pensavo che il raggiungimento di questa meta dipendesse interamente da me e fosse proporzionale all’impegno profuso, alla determinazione, alle energie investite. Non sapevo delle difficoltà, non conoscevo le resistenze, non immaginavo quanto la stupidità e l’egoismo degli uomini potessero ostacolare il cammino di chi intraprende quella strada! Una battaglia contro i mulini a vento, ma che va comunque combattuta per dare un senso alla vita.

Bussarono alla porta.

Cine sese? (Chi sei?) ‒ domandò zia Tana a voce alta alzandosi di scatto.

Non chistionese (Non parlare) ‒ mi disse sottovoce prima di dirigersi verso l’uscio. ‒ Ite olese? (Cosa vuoi?) ‒ interloquì avvicinandosi alla porta semiaperta. Sì, perché nei paesi, se si è in casa, non la si chiude mai, segno di una continua disponibilità, di una familiarità e di una fiducia che nei centri urbani s’è persa.

Seo Assunta, seo enìa po sa cummissione de is caschettes (Sono Assunta, sono venuta per l’ordine dei caschettes) (I caschettes sono un dolce tipico locale).

Solo allora zia Tana si affacciò alla porta.

Gente tenese? (C’è gente?) ‒ domandò Assunta curiosa.

Nono, seo sola. Fui preparannommi un ciccu de brodu (No, sono sola. Stavo preparandomi un poco di brodo).

Io, che udivo distintamente la conversazione, sorrisi all’idea di come zia Tana (ma in fondo era costume comune della Barbagia) non avesse piacere di far sapere quello che avveniva in casa sua, anche se a chiederlo era una parente come Assunta (una nipote di secondo grado).

‒ Tu non devi mai dire cosa stai facendo, né tantomeno quello che pensi ‒ mi ammoniva spesso. ‒ Perché poi quelli, se possono, ne approfittano -.

Quelle voci nella lingua che io avevo imparato solo da adulto, quando medico avevo avuto la necessità di capire chi non sapeva esprimersi in italiano, penetravano nel mio animo rassicurandolo. Provavo un benessere ,molto profondo come di colui che è a suo agio nel mondo. Avvertivo l’intima soddisfazione di essere partecipe. Ero me stesso nella mia terra, consapevole di essere utile e ben accetto. Nel mio cuore era accesa e brillava una viva emotività. Cosa potevo chiedere di più. Compresi appieno in quell’istante il significato del sentirsi stranieri e i riferimenti che contraddistinguono questo sentimento. Se mi fu chiara l’importanza di una cultura e di una storia condivisa, di tradizioni che accomunano, intravvidi l’indissolubile nesso che tutto ciò ha con il linguaggio e con la parlata anche d’uso quotidiano. Compresi come la non conoscenza della propria lingua sia una manchevolezza di enorme portata, come quella di chi ha cancellato la propria storia, o ha abbandonato le proprie tradizioni ritenendole entrambe un limite, un impedimento alla crescita. Ti manca una parte del mondo al quale appartieni, uno strumento di comprensione profonda e sottile, una prospettiva dalla quale osservare il mondo, una finestra sulla piazza della vita.

Presi a riflettere sul Sardo come lingua. Una lunga diatriba fatta di vuoti ragionamenti aveva contrapposto i sostenitori della parlata sarda come lingua a quelli che la consideravano solo un dialetto. E se a favore dei primi giocava la radice comune latina, gli altri potevano a buon diritto sostenere l’esistenza di sostanziali differenze nelle diverse zone dell’isola. Tra Belvì e Aritzo, distanti appena due chilometri, alcune parole venivano usate con significati differenti!

Personalmente, ritenevo la parlata sarda poco evoluta per significare le molteplici esigenze della comunicazione attuale, complessa e molto concettuale. Per contro, ne apprezzavo la ricchezza nella descrizione della realtà quotidiana e dei sentimenti. Avvertivo una sorta d’irritazione nei confronti di tutti coloro che avrebbero potuto lavorare sul patrimonio linguistico, presupposto per ogni processo di crescita e di sviluppo sociale ed economico, e nulla avevano fatto. Una sarda, Grazia Deledda. premiata con il Nobel per la letteratura non era riuscita a trascinare altri ad adoperarsi perché il sardo potesse divenire una lingua! Mah! Passai in rapida rassegna coloro che della Sardegna avevano fatto il proprio trampolino di lancio e poi l’avevano dimenticata. Figli ingrati, purtroppo numerosi, di una terra che ancora non ha sanato le ferite che costoro hanno lasciato aperte.

App’intendiu chistionare! (Ho sentito parlare!) ‒ insistette Assunta mentre zia Tana la teneva perentoriamente fuori dalla porta.

Is caschettes ‒ glissò zia Tana. ‒ mi serbinti po pusticrasa. Ne ojo trinta (I caschettes mi servono per dopodomani. Ne voglio trenta).

Benisi a castiare sa televisione? (Vieni a guardare la televisione?) ‒ la stuzzicò ancora Assunta. Era troppo curiosa di sapere con chi era zia Tana, chi fosse l’ospite. Erano tanto poche d’inverno le occasioni di pettegolezzo che lasciarsene sfuggire una così ghiotta ad Assunta sembrava un peccato.

Commo nono (Adesso no) ‒ le rispose zia Tana. ‒ Tegno ite faere e non mi intendo ene (Ho da fare e non mi sento bene).

Male istasa? (Stai male?) Ite tenese (Cos’hai)?

Zia Tana si era infilata in un vicolo cieco.

Su dottore m’ha nau ca este sa pressione (Il dottore mi ha detto che è la pressione).

A cantu da tenese? (A quanto ce l’hai)

Custe merie fiada a centusessenta (Questo pomeriggio era a centosessanta).

Lampu! (Fulmine!) (è una tipica espressione barbaricina)

Ite oles faere! Si bieus crasa (Cosa ci vuoi fare. Ci vediamo domani) ‒ fu perentoria zia Tana.

Tanno a crasa (Allora a domani) ‒ Assunta malinconicamente si congedò, dispiaciuta di non aver soddisfatto la sua curiosità.

Quando zia Tana fu rientrata nella piccola stanza, dopo aver chiuso la porta per evitare qualche altra visita inopportuna, prese a parlarmi stizzita dei suoi compaesani.

Olianta ispeldioso. Funti tuttus tontos. Non de balede unu (Dovrebbero essere dispersi. Sono tutti tonti. Non ce n’è uno che vale).

‒ Non sarai troppo severa? ‒ provai a suggerire.

Tue non dos connoscese. Este gente mala. Olente iscire tottu po si prennere sa ucca de entu (Tu non li conosci. È gente cattiva. Vuol sapere tutto per riempirsi la bocca di vento).

‒ Sei molto dura ‒ dissi.

Narasa? (Dici?)

‒ Non credi che vi sia qualcuno che merita un minimo apprezzamento, che possa essere salvato da questo disastro?

Isculta Cocò (Senti Cocò ‒ era il nomignolo col quale mi chiamava mia nonna, diminutivo di Nicola, e mi parve strano che lo usasse) tue non cumprendes… (tu non capisci).

‒ Mi vuoi far capire che non sono in grado di discernere, di valutare opportunamente? Ricordati che lo faccio di mestiere!

Riprese a parlare in italiano con un tono più pacato.

‒ Tu non vivi tutti i giorni con questa gente. La vedi un paio di volte l’anno e quando t’incontrano non hanno difficoltà a sorriderti. Quando poi non ci sei non immagini neanche quello che dicono. Anche su di te!

‒ Su di me?

‒ Proprio su di te!

‒ Se sono argomento dei loro discorsi allora vuol dire che sono importante! E dire che non me ne ero accorto!

‒ Tu scherzi, ma per gente che non ha nulla nella testa, che è invidiosa, il parlar male di te sembra li faccia star bene. Tu ti ricordi di Costanzo? Non eravate tanto amici? Ebbene è stato quello che ha insinuato che volevi prendere in giro tutti i belviesi con quel tuo progetto, che avresti fatto bene a tenere in un cassetto. Tanto i belviesi, te lo ripeto, non meritano nulla.

La rivelazione mi lasciò un poco interdetto. In realtà non mi meravigliava più di tanto. Conoscevo i belviesi, li sapevo poco affidabili, molti di loro erano veramente invidiosi, ma presuntuosamente pensavo che finché non avessero potuto nuocermi, non era il caso che mi preoccupassi. Consideravo questa mia positività nei confronti degli altri un segno di maturità, di grande apertura mentale e mi compiacevo di possederla, ma per contro non valutavo invece quanto questo atteggiamento mi tenesse lontano proprio dalla gente e mi precludesse un vero dialogo. Perché in realtà solo chi ha compassione, cioè prova dispiacere per il dolore e le manchevolezze altrui, solo chi accetta di condividere con altri i propri moti dell’animo, può pensare di aver accesso a una reale comunicazione e quindi alla comprensione del suo simile.

Il silenzio si rimpadronì di quel piccolo spazio e i miei pensieri ripresero il filo della memoria dell’infanzia e del girovagare per i boschi con i coetanei. Non si decideva mai prima a cosa giocare. Ci s’incamminava fuori dall’abitato poi si inventava a soggetto. Un ammasso di pali, un mucchio di fieno, un albero abbattuto, un asino incustodito potevano generare l’idea del gioco. Spesso ci si limitava solo a fare gli esploratori, e allora il vagare per i boschi di querce, di lecci, sotto i castagni (il cui sottobosco in primavera si ricopriva di una fitta vegetazione lussureggiante ingentilita dai fiori bianchi dell’asfodelo e incorniciata, nelle siepi, dalle macchie gialle delle ginestre) era un vero e proprio bagno di sensazioni ed emozioni che scolpivano nella mente il profilo della bellezza e davano, noi inconsapevoli, spessore ai sentimenti e ai pensieri.

Respiravamo i profumi di quella generosa terra e una libertà incontaminata, senza remore, senza dubbi. Padroni di quel nulla che in realtà, ma lo si capisce sempre tardi, è tutto ciò che si può desiderare.

La costruzione di rifugi con le frasche nel cuore della vegetazione più fitta costituiva uno degli impegni più frequenti. Era come prendere possesso di quella fetta di territorio. Era un bisogno comune che non cercava spiegazioni. La prima operazione era la scelta del sito. Un volta reso agibile lo spazio che sarebbe stato occupato dal manufatto, si cominciava dalla copertura per terminare con la sistemazione delle pareti. Non si utilizzava nient’altro che quello che il bosco metteva a disposizione. Un pezzo di spago era un bene troppo prezioso per disperderlo in uno dei tanti rifugi costruiti! Capitava spesso che finito il lavoro era già ora di tornare a casa e si abbandonava il rifugio con la consapevolezza che il giorno dopo il gioco si sarebbe svolto da un’altra parte.

Guidava la banda di ragazzini Checco, detto il Grande Blek. Aveva diversi anni più di me. Fisicamente prestante, era il capo indiscusso. Figlio di genitori poverissimi non aveva mai voluto frequentare la scuola. Lavorava come manovale quando lo chiamavano, ma non succedeva spesso poiché, pur apprezzandone la volontà, la disponibilità e anche la vigoria fisica, lo giudicavano poco affidabile. Poteva, e gli era capitato più d’una volta, lasciare a mezzo un impasto per correre dietro a un asinello da montare. Il cuore di un bambino nel corpo di un uomo! Lui era così. Credo non volesse crescere per evitare di guardare in faccia un’esistenza molto dura. Tutti i tentativi del padre di metterlo in riga erano falliti miseramente, travolti da quel suo desiderio di gioco che si accendeva alla minima occasione.

Un episodio gustoso, che lo aveva visto protagonista, era capitato durante la festa del patrono del paese. Il padre gli aveva affidato la custodia del tiro a segno per qualche minuto. Quell’attività, che nelle feste permetteva loro di raggranellare qualche lira per tirare a campare, era una delle molteplici che il padre si era inventato nella speranza di trovare la strada giusta che concedesse loro una vita meno grama (peraltro erano tanto fieri da non accettare elemosine da nessuno). Ma ogni volta, quando sembrava che la nuova trovata ingranasse, accadeva qualcosa che inceppava, complicava, impediva, dissuadeva. E si trovavano punto e a capo. Quell’occasione, con Checco che aveva a disposizione il tiro a segno, a noi che non era permesso prendere in mano un fucile, ci parve troppo ghiotta. Lo circondammo e senza troppa fatica lo convincemmo a metterci in mano le carabine ad aria compressa per sparare qualche colpo.

Le opzioni erano due: sparare al bersaglio al muro oppure tentare di centrare il cuore di un uccello di ferro, parte scorrevole di un marchingegno, che ci attraeva non poco. Il cuore del pennuto era in realtà un dente a molla che serviva a sostenerlo in cima a un asse di scorrimento. Quando veniva colpito sbloccava la figura d’uccello che, scivolando velocemente in basso, raggiungeva una cavità piena di polvere da sparo situata al piede dell’asse. L’impatto faceva esplodere la polvere con un botto assordante liberando un acre odore di zolfo che, nella nostra fantasia infantile, non potevamo non associare al diavolo. Tutti volevamo misurarci con quella macchina infernale. Checco si lasciò subito prendere la mano. A turno ci fece sparare, dicendo che si trattava del battesimo di fuoco delle sue giacche blu (in quel momento impersonava il tenente Rick della serie Rintintin), ma l’estrema imperizia vanificò ben presto l’entusiasmo. Con le carabine nessuno riusciva a colpire il bersaglio e a provocare il botto; allora incominciammo a usare dapprima piccoli sassi (eravamo in questo di certo più abili) e poi via via pietre più grosse. Il fitto lancio, d’un tratto, fece traballare l’intero marchingegno, che colpito al cuore entrò in funzione mentre cadeva. L’esplosione della polvere da sparo con la caduta laterale si propagò al sacchetto che conteneva le cariche dell’intera giornata. Un botto terrificante scaraventò a terra tutti noi e frantumò i vetri delle finestre adiacenti. Fu un caso che tutto si risolvesse in uno spavento e null’altro. Rividi Checco solo qualche settimana più tardi con ancora i segni sul viso della discussione avuta col padre.

Anche Checco, come tanti altri, finì per lasciare il paese per non tornare più.

Altra colonna portante del gruppo era “Baddirone”, Capitan Miki per gli amici, Salvatore per l’anagrafe, tanto piccolo e minuto quanto vitale e sveglio. Aveva una soluzione per ogni problema ed era l’unico che riuscisse a procurare materiali pregiati come spago, filo di ferro, chiodi, qualche dado con bullone. Sapeva aggiustare ogni cosa e questi arrangiamenti avevano un che di geniale. Ne ricordo gli occhi accesi come carboni ardenti. Era astuto e arguto. Non mancava mai. Il trascorrere del tempo non lo ha cambiato, e incontrandoci da adulti mi è capitato di scherzare con lui ricordando quel periodo così felice e innocente.

‒ E allora capitan Miki! Ma questi indiani quando li mandiamo in riserva?

L’allusione era nei confronti di coloro, e non erano pochi anche a Belvì, che credendo, di aver capito tutto della vita, pontificavano, blateravano, ronzavano fastidiosi nelle orecchie. Rispondeva con un sorriso complice che si accendeva per un subitaneo bagliore dello sguardo dal quale capivo che anche nella sua mente erano riaffiorati in quell’istante i ricordi dell’infanzia.

Il più simpatico era però Salvatore Casula, soprannominato “Maglianeddu” (piccola volpe). Piccolo e con una carnagione molto scura si dava arie da grande. Il desiderio di diventare in fretta adulti era forte in tutti perché si supponeva, ingenuamente e sbagliando, che per soddisfare i propri desideri bisognava essere adulti. E se un desiderio è grande, si può perfino arrivare a desiderare di diventare uomini in una sola notte. A me questo occorreva quando avevo dodici anni. Al momento di addormentarmi speravo di svegliarmi il mattino seguente già venticinquenne, uomo fatto, per poter fare la corte a un’attrice che appariva in televisione e della quale mi ero innamorato. Tutti ne erano innamorati, era la fidanzatina degli italiani, e io non avevo fatto eccezione. Solo che avevo il problema della giovane età. Quando poi ebbi a sostituirla con Marilyn Monroe il desiderio di svegliarmi adulto divenne quasi un’ossessione. Cercavo di convincermi che a concentrarsi in modo opportuno avrei potuto indurre la modificazione. Pensavo fosse solo un problema di volontà. Nonostante i tanti tentativi però non approdavo a nessun risultato. Marilyn nel frattempo passava da un marito all’altro confermandomi l’idea che vivesse incompresa, mascherando una solitudine che a me pareva evidente, in attesa di qualcuno che sapesse darle ciò che desiderava e le offrisse una vita felice. Non mi capacitavo di come tanta bellezza, viva espressione di armonia universale, non trovasse adeguate corrispondenze, ovvero un’intelligenza capace di valorizzarla e farla risplendere. Presuntuosamente, ma con l’ingenuità che contraddistingue l’età, pensavo di essere all’altezza di quel compito. Ero certo di riuscire. O meglio, il mio desiderio era così forte che avrei potuto smuovere le montagne. Poi lei morì, e con la sua morte si spense l’idea di saltare una parte della mia vita che incominciava a offrire, a me piacevolmente sorpreso, i primi veri batticuori sentimentali.

Il pensiero tornò a Maglianeddu e ai suoi tre fratelli maggiori noti per essere dei colossi, tanto forti quanto d’animo gentile. Si diceva di loro che in una giornata di lavoro potevano approntare un intero carico di ciocchi (per lo stesso lavoro era necessaria una squadra di dodici operai) a patto però che si mettesse a loro disposizione una decina di chili di pane, una forma di formaggio e una ventina di litri di vino. E che fossero capaci di tanto non era solo una voce. Una volta capitò, credo durante la festa di ferragosto, che nessuno riuscisse a raggiungere la ruota del palo della cuccagna issato nella la piazza. Per quanti sforzi facessero gli agili arrampicatori, lo spesso strato di grasso impediva loro di arrivare in cima, e nemmeno una piramide umana fu capace di raggiungere il risultato sperato. Visto circolare in piazza uno dei tre fratelloni, qualcuno ebbe l’idea di chiedergli di fare da base della piramide. Inizialmente lui tentò di schivare l’invito, ma poi si lasciò convincere. Con l’abito da festa chiaro e la cravatta usata per la prima volta in quell’occasione, abbracciò il palo della cuccagna, fece salire sulle sue spalle, uno a uno, i componenti della piramide, e issò la lunga fila di cristiani fino alla cima. La piazza esplose in un urlo liberatorio, tutti volevano congratularsi con lui che, solo in quel momento, si accorse delle condizioni dell’abito e della cravatta, neri di grasso e cenere. Frastornato e a disagio dai clamori che il suo gesto aveva prodotto, si eclissò dalla piazza in pochi istanti e non fu più visto nei giorni seguenti. Per questo Maglianeddu aveva tanta ammirazione per i suoi fratelli! Ma anche tanto timore di suscitare la loro ira perché li conosceva molto severi e quindi non era prudente irritarli.

Cosa che capitò invece una sera, mentre si giocava in piazza: lui accese un mozzicone di sigaretta trovato per terra e mentre fumava si accorse che veniva verso di noi il fratello maggiore. Immemore di aver riposto nella tasca dei pantaloni una manciata di polvere pirica con la quale confezionava piccole bombe (l’uso degli esplosivi era mestiere di famiglia), nascose la cicca in quella stessa tasca, memore del fatto che nessuno vedeva di buon occhio i ragazzini che fumavano, e tantomeno i fratelli. Passò solo qualche decina di secondi, il tempo di assumere un’aria indifferente mentre passava il fratello, e la polvere pirica manifestò la sua presenza con una fiammata viola improvvisa e violenta che gli bruciò la pelle della coscia. Lui non si scompose per non richiamare l’attenzione del fratello che era ancora nei paraggi e, nonostante il dolore, dichiarò a noi esterrefatti che la sua unica preoccupazione era il danno che i pantaloni, ormai bruciati, avevano subito. La pelle della coscia si sarebbe riformata, ma la stoffa no! Per i poveri un paio di braghe valgono a volte più della propria pelle! Stravagante, un poco sbruffone, ma simpatico.

Un’altra volta capitò che ci incontrassimo presso una sorgente in campagna. Lui aveva già bevuto e riempito un bottiglione di due litri da portare ai fratelli. Ci mettemmo a scherzare, e non ricordo come, lanciò la sfida che avrebbe potuto scolarsi l’intero bottiglione d’un fiato. Senza attendere risposta si attaccò al collo del bottiglione e, incredibilmente, lo scolò per intero. Ci lasciò lì (ero con mio fratello maggiore) esterrefatti, dicendo che tutto sommato forse aveva ancora sete. Ma la sua specialità era la costruzione dei carrucci di legno, simili a un monopattino con due ruote posteriori e una anteriore, con i quali poi ci si lanciava in spericolate corse nella ripida discesa che conduceva alla stazione. Era lui che procurava tutto il materiale, dalle tavole, ai chiodi, alle ruote in legno, che erano le più difficili da reperire perché dovevano essere approntate appositamente da un falegname che doveva impiegare tempo e legname per uno sfizio! Noi partecipavamo all’assemblaggio. Si cominciava dal piano di seduta al quale veniva inchiodato posteriormente l’asse delle ruote, di solito un manico di scopa perché era perfettamente tondo. Su questo venivano infilate le ruote e fermate con un chiodo che passava da una parte all’altra l’asse. Nella parte anteriore del piano di seduta del carruccio veniva ritagliata la testa del giunto da inserire nella forcella realizzata nella tavola del manubrio, lunga quanto quella di seduta, ma più stretta con in testa il manubrio vero e proprio. Sotto l’incastro era sistemata la ruota anteriore, fissata come la posteriore. Il manubrio era tenuto inclinato all’indietro a formare col piano di seduta un angolo di quarantacinque gradi. Questa posizione permetteva una guida, diciamo, sportiva, perché si poteva stare reclinati all’indietro, vedere bene la strada, e inoltre attenuare, lasciandosi cadere di schiena, gli effetti dei frequenti capitomboli. Completato l’assemblaggio, si correva tutti sotto la muraglia dove cominciava la ripida discesa, circa cento metri, che portava alla stazione. E lì si dava prova di coraggio. Il più scavezzacollo era sicuramente lui, Maglianeddu, che accomunava una rara maestria nel condurre quella macchina così rudimentale a un totale disprezzo del pericolo. Lanciarsi in quella folle corsa, senza mezzi per frenare, col rischio di volare fuori dalla stradina e finire in mezzo alle siepi di rovi, era un atto d’irresponsabilità che non mi apparteneva e quella discesa non la feci mai. Non ho mai saputo che fine abbia fatto Maglianeddu dopo che ebbe lasciato il paese per cercare fortuna.

Anche io lasciai il paese quando avevo cinque anni. La famiglia, sino allora divisa in due tronconi (i miei genitori con i fratelli grandi a Cagliari; mia nonna, mia zia, Severa e noi piccoli a Belvì), si ricongiunse nella nuova casa di città per un trasferimento definitivo. A Belvì rimase solo Severa e il paese divenne luogo di villeggiatura nei mesi estivi, durante i quali la donna si riaggregava alla famiglia. Non ricordo cosa facesse negli altri mesi dell’anno. Di sicuro era a disposizione e veniva retribuita permettendole di approvvigionarsi presso il lattaio e un negozio di generi alimentari di quanto le serviva per vivere. In alcuni periodi fu imprestata a parenti e amici che abitavano in città, bisognosi di un aiuto in casa. Ne disponeva mia madre che la destinava ora qua ora là. Lei accettava sempre di buon grado, anche se talvolta non gradiva la famiglia prescelta. Non credo che avesse voce in capitolo in quelle decisioni che in fondo la riguardavano.

Severa a quel tempo era divenuta parte integrante della nostra famiglia, anche se il ruolo di domestica non lo smise mai. Negli ultimi anni della sua vita, in pensione a causa dei suoi disturbi cardiaci, quando veniva a casa nostra invitata a pranzo, continuava ancora a mangiare in disparte, magari non in cucina o vicino al caminetto come succedeva anni prima, ma seduta su una sedia poco distante dal tavolo, col piatto in mano. Diceva che stava più comoda così, ma in realtà avrebbe voluto che mia madre le offrisse quel posto, alla tavola de sa meri (della padrona), che le sarebbe piaciuto occupare anche solo una volta, per sentirsi pienamente accettata, lei che aveva dedicato tutta la sua vita a noi.

Non ricordo bene quando, ma anche Severa si sposò. Ci fu lo zampino di mia madre, che voleva darle una sistemazione davanti gli occhi dei compaesani. E anche un coperchio, perché se una donna in paese non si sposa vuol dire che è terribilmente brutta, o con una reputazione discutibile. Le fu presentato un servo pastore, ormai in età avanzata, che, non interessato ai trascorsi di Severa, era contento di maritarsi. A lei non piaceva, aveva in mente qualcun altro, ma l’influenza di mia madre giocò un ruolo decisivo. Era bene che avesse un marito, che si assicurasse un reddito, anche minimo, e che si mettessero a tacere le chiacchiere della gente! Il matrimonio fu celebrato in sordina e non a Belvì. Vivevano separati: lui servo pastore presso un’azienda nella pianura campidanese non poteva spostarsi, lei a Belvì, a nostra disposizione. Non andava mai a trovarlo e quando veniva lui, “non più di una volta all’anno per carità”, lo ospitava sì nella sua casa, ma lo faceva dormire per terra dicendogli che non voleva che perdesse l’abitudine. Analfabeta lui, lei non gli scriveva mai. “A che fare?” sosteneva “E poi non ho nulla da scrivergli”. Ogni rimostranza di lui nei confronti di questa situazione non sortì mai effetto alcuno. Per Severa le cose dovevano stare così o almeno questo è ciò che ebbe a raccontarmi quando, sollecitata con domande dirette, poco o nulla volle raccontarmi di questa sua relazione. L’aveva vissuta come qualcosa di estraneo a lei e al suo mondo costituito, per ordine d’importanza da mia madre, da me e dalla mia famiglia.

Intorno agli anni sessanta mio padre acquistò un ettaro di bosco di castagno poco distante dal paese e qui pensò di edificare una nuova e confortevole casa. La sua sopita passione ingegneristica, questa era la professione che aveva sempre desiderato, emerse per intera palesando una qualità insospettata. Il progetto prevedeva la realizzazione della strada di collegamento tra il terreno e il paese, di un acquedotto che canalizzava l’acqua cristallina di una sorgente della montagna di fronte in un capace serbatoio situato nel punto più alto del terreno, della linea per l’energia elettrica, e infine della casa nella sua prima parte (per il completamento passarono circa una quindicina d’anni). Un progetto inusuale per quelle zone, sia per la completezza d’intervento, oggi si direbbe un progetto integrato, sia per la dimensione delle risorse impegnate. E ciò non poté non approfondire il solco tra la gran parte dei paesani, che pur partecipando ai lavori, erano invidiosi, e la nostra famiglia.

I primi due anni videro lo svilupparsi di un’intensa attività, concentrata nel periodo estivo, alla quale tutti noi figli fummo invitati a dare un personale contributo. I fratelli maggiori furono impiegati come operai, noi piccoli come aiutanti. Personalmente partecipavo alla costruzione della strada distribuendo l’acqua da bere a chi lavorava col picco e col badile sotto il sole, mentre nei lavori della casa facevo il manovale a disposizione di un muratore. Portavo in spalla le pietre sul ponteggio, impastavo il cemento o la calce con la sabbia, lavavo e riponevo gli attrezzi alla fine della giornata lavorativa. Un’esperienza di vita unica, ancorché gravosa, che avevo accettato con la curiosità di chi vuol mettere sempre il naso dappertutto per rendersi conto in proprio di ogni situazione.

Nel primo anno fu completata la strada e parte dell’acquedotto, nel secondo la linea elettrica e la prima parte della casa. Nelle giornate nelle quali non si lavorava con gli operai, sotto la guida di mia madre si provvedeva alla pulizia del sottobosco che, incolto per tanti anni, era diventato un inestricabile intreccio di lentischio, di erica, di corbezzolo, arbusti tra i quali si era insinuato maligno il rovo. Il terreno era infestato dal cisto fitto e resistente che creava difficoltà nel camminare e che fu debellato solo dopo anni di lavoro. Ricordavo le mani ruvide e piagate di mia madre, che con quel cisto ebbe a combattere una personale ma vittoriosa battaglia. Particolare cura veniva dedicata ai ceppi dei castagni che dovevano essere liberati dai giovani fittoni che succhiavano alla pianta madre linfa vitale. Un’operazione pericolosa perché occorreva tenere con una mano i virgulti per tagliarli con la roncola nell’altra mano alla radice che poco si vedeva perché nascosta dal ricco fogliame. Il rischio era di ferirsi o di tagliarsi un dito, ma fortunatamente questa seconda evenienza non ebbe mai ad accadere.

Si lavorava dalla mattina presto al tardo pomeriggio e rientrando a casa in paese, vivevamo ancora lì, restava solo il tempo di fare il bagno, cenare e andare a letto. L’aver sistemato una doccia aveva semplificato di molto le operazioni di pulizia che fino ad allora erano state laboriose sia perché eravamo in tanti, sette figli, sia perché serviva tanta acqua calda e non era facile riscaldarla in così poco tempo. Mia madre aveva ideato e adottato un metodo che permetteva di fare in fretta e risparmiare acqua calda (era poi ciò che le interessava maggiormente).

Il sistema di lavaggio era il seguente: chi si lavava per primo si bagnava e insaponava in una prima bagneruola e nella seconda si risciacquava; il secondo usava l’acqua di risciacquo del primo per bagnarsi e insaponarsi e si trasferiva nell’altra bagneruola, dov’era stata cambiata l’acqua, per il risciacquo e così via. Il risparmio era notevole e la catena di lavaggio, con mia madre da una parte e Severa dall’altra, funzionava bene.

Che mia madre fosse per natura parsimoniosa lo si era potuto notare sin da quando era ragazza, che la guerra poi l’avesse spinta a utilizzare tutto e a non buttare via niente è comprensibile, ma con l’andar del tempo questa sua caratteristica si era trasformata da pregio in difetto. Celebre in famiglia è il suo motto che per parlare lo si poteva fare anche al buio risparmiando così corrente elettrica. A me personalmente era accaduto solo qualche tempo prima un simpatico episodio che ogni volta che mi tornava alla mente mi faceva sorridere. Era una fredda sera d’inverno, mio padre e io chiacchieravamo davanti al caminetto. Rimasto senza sigarette mio padre mi chiese di andare a prendergliene un pacchetto che teneva come scorta nel comodino della camera da letto dove mia madre si era recata da qualche decina di minuti per coricarsi. Appena entrato in camera mia madre mi pregò, poiché sentiva freddo, di accendere una stufa elettrica, di quelle a sabbia e olio che non riscaldano subito, situata appena accanto all’ingresso. Esaudii il desiderio immediatamente, anche perché mi resi conto del gelo pungente che ristagnava nella stanza. Non ebbi il tempo di fare il giro del letto, aprire il cassetto del comodino, prendere il pacchetto di sigarette per mio padre e fare per uscire dalla porta della camera, che mia madre richiamò la mia attenzione e mi disse, con voce tremula, di spegnere la stufa perché già stava meglio in quanto l’aria si era intiepidita. A nulla valsero le mie proteste. Quella stufa accesa che consumava corrente era un tormento peggiore del freddo.

La catena del lavaggio che esauriva la sua attività in poco più di venti minuti, ci preparava tutti per una cena frugale, solitamente patate e fagiolini bolliti poco conditi e pane a volontà. Poi a nanna in letti, visti gli spazi, rigorosamente a castello. Nella casa di paese infatti vi erano solo due camere da letto, quella matrimoniale al primo piano dove dormivano mio padre e mia madre e quella del secondo nella quale, divisa a metà, dormivano da un lato mia nonna, mia zia e mia sorella, e dall’altro noi sei maschi.

Quel pane a volontà, richiamò alla mia mente un episodio vissuto in città quando avevo sette anni, che poco aveva a che fare con i ricordi del paese, ma era stato unico nel sue genere e non l’avevo dimenticato. La nostra famiglia composta da undici persone consumava dai quattro e mezzo ai cinque chili di pane al giorno. Per risparmiare venti lire al chilo ci servivamo in un panificio distante dalla nostra abitazione e mio fratello più grande e io facevamo i turni, una settimana a lui e una a me, a seconda degli orari scolastici, per andare a comprarlo. Una mattina arrivato in panificio per comprare il pane mi accorsi, all’atto di pagarlo, di non avere più i soldi. Mi frugai dappertutto, rivoltai tutte le tasche, ma dei soldi nessuna traccia. Allora ripercorsi la strada che avevo fatto all’andata cercando per terra il biglietto da cinquecento lire che mi era stato consegnato uscendo di casa. Via via che tornavo indietro e mi rendevo conto che non avrei ritrovato i soldi incominciarono a spuntarmi le lacrime agli occhi. Camminavo e piangevo sempre più forte. A metà strada del ritorno ormai piangevo a singulti, in modo irrefrenabile. Fui fermato da qualcuno che mi chiese cosa mi fosse successo, ma il pianto era così forte che non riuscivo a spiegarmi. Altra gente incuriosita mi si faceva attorno e io piangevo. Il mio cruccio profondo era che non potevo tornare a casa senza pane, chissà come sarei stato sgridato, e poi perdere tanti soldi. Intanto si era formato un capannello di gente che cercava di sapere. Finalmente riuscii a dire, tra un singulto e l’altro, ciò che mi era successo liberando dall’angoscia coloro che mi circondavano e che a tanto pianto immaginavano corrispondesse un fatto ben più grave. Fecero una colletta e riuscirono a raccogliere quattrocento lire, tutte in monetine da dieci. Me le misero in mano e raccomandandomi tanta prudenza mi congedarono soddisfatti di avermi restituito il sorriso. Tornai al panificio, comprai solo quattro chili di pane sperando che nessuno si accorgesse della differenza. Così fu, ma quel pianto a dirotto, così accorato e sconsolato, forse unico nella mia infanzia, ha lasciato un vivo ricordo che ancora oggi suscita in me il sorriso.

Di quelle estati passate a Belvì, me ne sorpresi, non avevo ricordo di giochi, di divertimenti. Tanta fatica ci aveva equiparato ai nostri coetanei belviesi che concorrevano col loro lavoro, e non solo d’estate, al magro bilancio familiare, e come loro eravamo finiti ad aspettare, per qualcosa di piacevole, la domenica o ancor più la festa del patrono del paese, Sant’Agostino, che si celebrava dal ventisette al trenta di agosto.

L’unica nota allegra feriale che riaffiorava alla mente era la fuga che organizzavamo nel primo pomeriggio per andare a fare il bagno, in quel tempo a luglio c’era un caldo soffocante, nelle vasche di raccolta dell’acqua in campagna. Di fuga vera e propria si trattava, perché mio padre dopo pranzo ci costringeva a riposare. Figuriamoci, cinque maschi in pochi metri quadrati a riposare! Aspettavamo che mio padre prendesse sonno (lui sì che si faceva il pisolino pomeridiano) e poi, uno a uno, scendendo scalzi le scale di legno per non fare rumore, filavamo via per incontrarci con la congrega che, festante, si gettava in una corsa pazza verso il fondovalle, verso le vasche e il tanto desiderato refrigerio. La cosa non era ben vista dai proprietari dei vasconi, poiché nel fare il bagno in tanti la metà dell’acqua finiva per fuoriuscire dalla vasca e perdersi. Allora bisognava scegliere quella giusta, quella il cui proprietario si sapeva essere lontano dal paese o indaffarato in altre faccende. Decisa la destinazione si partiva a razzo lanciando urla e grida come gli indiani pellerossa che avevamo visto in qualche film. Il bagno era una festa, e se l’acqua non era particolarmente limpida poco importava. Tuffi, scherzi, gare di nuoto, era uno spasso incredibile. Salvo a veder comparire in lontananza il proprietario infuriato, magari avvisato da qualcuno che aveva visto. Alla faccia dell’omertà. Allora era un fuggi, fuggi generale, nudi, con i vestiti e la scarpe in mano. Una volta capitò che per sfuggire alle giuste ire del padron, fummo costretti ad attraversare una siepe di rovi secchi. Ci volle qualche decina di minuti per toglierci, seduti sulla riva di un ruscello, tutte le spine che si erano conficcate nelle piante dei piedi. Fu un ritorno in paese mesto, sanguinante e timoroso, perché essendo stati scoperti la cosa sarebbe arrivata ai rispettivi genitori. E allora erano botte da orbi, mica garbati rimproveri! Non v’era ancora tra genitori e figli il dialogo che un decennio dopo si è affermato come nuovo principio pedagogico. Prevaleva sempre e comunque il punto di vista dei genitori e non lo si poteva mettere in discussione. Solo avvicinandosi all’età adulta talora era permesso al giovane esprimere il proprio parere, ovviamente a titolo consultivo. Nessuna presa di posizione decisa era possibile salvo trovarsi fuori dalla porta di casa qualche minuto dopo. Senza che ciò significasse una rinuncia del genitore al suo ruolo educativo. Anzi! Il fatto era che l’intera società degli adulti si comportava allo stesso modo e pertanto era improbabile che il ribelle trovasse qualcuno disposto a dargli ragione. Non c’era peraltro il rischio di finire in mezzo a cattive compagnie, poiché i fenomeni delinquenziali, almeno nei piccoli centri, erano del tutto inesistenti. Si tornava inevitabilmente a casa a capo chino a chiedere il perdono e la comprensione dei grandi che, ricordandosi di essere stati giovani anche loro, lo concedevano. Questa visione dell’educazione giovanile, in apparenza molto limitata, in realtà era il campo di sperimentazione adatto a forgiare la personalità dei giovani. Il confronto tra le due generazioni pur aspro, difficile, irto di ostacoli da superare, zeppo di problematiche che chiedevano scelte non facili, obbligava alla costruzione di un personale corpus di convincimenti, insostituibile trampolino di lancio verso lo svilupparsi di una peculiare creatività e di un pensiero originale. Tali caratteristiche possono sbocciare e svilupparsi, e ciò lo compresi da adulto, solo in presenza di precisi vincoli e nel rispetto di rigide norme, che debbono essere ben conosciute, ben praticate e approfondite prima di tentare di forzarle per potersi addentrare in un’ulteriore porzione del campo della conoscenza. I matematici, per esempio, per risolvere alcuni problemi di geometria, avevano introdotto il concetto di angolo tondo, certamente una forzatura rispetto al concetto che comunemente ne abbiamo, ma proprio questa apparente e comunque logica distorsione ha permesso loro elaborazioni di calcolo più complesse. Mi venne in mente la definizione personale di infinito che avevo elaborato usando un’analoga forzatura. Se si definisce lo spazio finito come un solido con tutti gli angoli interni concavi, rovesciando la posizione e quindi la connotazione di angolo interno, si può affermare senza tema di errore che l’infinito è un solido con almeno un angolo interno convesso. La forzatura concettuale sembrerebbe solo linguistica, ma non è affatto così poiché, se ci si pensa bene, l’idea di un angolo interno convesso è ricca di implicazioni originali tutte da approfondire.

Ero giunto al concetto di forzatura della norma, della regola, attraverso un lungo percorso che aveva le sue origini nelle lunghe discussioni che si svolgevano in famiglia dopo pranzo o dopo cena tra mio padre e i miei fratelli maggiori. Parlavano di tutto con mio padre, abile conversatore e fine dialettico. Io che non potevo prendere parte alla conversazione, ai piccoli non era permesso intervenire, ricordo ero più interessato al modo col quale si sviluppava il discorso che all’argomento trattato. Ero maggiormente attratto più dall’uso della grammatica e della sintassi, i vincoli e le regole della costruzione dei discorsi, che dei contenuti degli stessi. Mi divertiva, nel seguire il filo del discorso generale, cogliere e valutare la prospettiva della tesi di ciascuno, gli scantonamenti inevitabili in chi non aveva chiari e ben presenti tutti i riferimenti della discussione, le correzioni che venivano introdotte per ritornare in tema. Ma erano gli artifizi linguistici o concettuali, più o meno sofisticati, che venivano utilizzati per dare sostegno alla propria posizione che mi incuriosivano maggiormante! Quello classico di mio padre, trappola sempre vincente, consisteva nel far affermare all’interlocutore la veridicità di alcuni principi fondamentali (il suo cavallo di battaglia era il discorso sulla libertà), principi che poi utilizzava nella loro concatenazione logica che diventava indiscutibile per mettere in crisi la tesi dell’altro. Un altro artificio, lo usava mio fratello maggiore, era quello di utilizzare durante la discussione una serie di sinonimi del soggetto del discorso: con indifferente noncuranza, lui determinava attraverso questi un cambiamento di direzione del ragionamento che, spiazzando chi parlava con lui, gli permetteva di far prevalere il suo punto di vista.

Mi sovvenne che anche il concetto di libertà, uno dei pilastri del discorre di mio padre, aveva trovato nel meccanismo di forzatura della norma, la sua definitiva chiarificazione. Di vera libertà si poteva parlare, questo era divenuto anche il mio convincimento, solo nel rispetto delle norme, e non viceversa nella totale assenza di limiti e vincoli. La ricerca di uno spazio maggiore deve essere affidata a una forzatura compatibile la norma, al tentativo di curvatura di una linea retta compatibile con i suoi assiomi, e non alla sua inosservanza. Concetto difficile poco condiviso.

Il filo dei pensieri lasciò quella strada tortuosa e tornò al ricordo delle domeniche estive. L’attrattiva maggiore era per me la messa cantata delle undici della mattina, alla quale potevo partecipare se mi riusciva di evitare quella dei fanciulli, che invece era alle nove e che trovavo terribilmente noiosa. Ciò che faceva la differenza era la liturgia cantata dagli uomini e accompagnata dalle note di un organo che aveva più di cento anni. Era stato costruito nel milleottocentotrenta da un artigiano della penisola. Occupava il centro del coro alle spalle dell’altare. Prima che iniziasse la messa venivano aperti i grandi sportelli dell’organo e si liberavano dai fermi le leve del mantice, poste lateralmente. Quello solitamente era il mio posto. Ed era l’unico possibile poiché qualcuno che azionasse il mantice era necessario. Capitava talvolta che la musica mi distraesse da quel compito e allora erano urla strozzate da parte dell’organista di turno che avvertiva nelle note flebili il venir meno del flusso d’aria. Da quelle canne si diffondeva nella piccola chiesetta del Settecento la sacra melodia, attraverso una dozzina di differenti tonalità. Quel suono e quelle voci mi facevano accapponare la pelle, e inoltre mi piaceva cantare. Piano, per non stonare, per non essere messo a tacere. E se per essere ammesso nel coro (rigorosamente vietato alle donne che erano solite occupare la navata centrale della chiesa davanti l’altare e le piccole cappelle laterali) bisognava sottostare al compito di manovrare il mantice che dava fiato all’organo, ben venisse quell’incombenza, pur di assaporare tanta beatitudine.

Quel piccolo coro tutto rivestito di noce, imponente nei suoi scranni, non era molto frequentato. Usualmente c’erano una decina di uomini tra i quali però v’era sempre qualcuno che sapeva armeggiare con l’organo. Ovviamente non tutti erano padroni dello strumento, ma un minimo bagaglio, consistente nel saper suonare il Santus, l’Agnus dei e l’Ite missa est, lo possedevano tutti. Lo suonava perfino un muratore che aveva perso in un incidente due dita della mano destra. Alcuni accordi non gli venivamo bene, ovviamente, ma si arrangiava. Se mancava chi suonasse l’organo non ascoltavo la messa e andavo a ciondolare nel grande piazzale alberato che circondava la chiesa e dove, durante e all’uscita della funzione, la gente incontrandosi si attardava in chiacchiere. V’era il tempo, la messa finiva alle dodici in punto, e la voglia, visto che si era liberi dal gravame del lavoro quotidiano. Interi gruppi familiari al completo si fermavano con i figli allineati nell’ordine di genitura schierati l’uno di fronte all’altro, intrattenendosi in piacevole conversazione sotto la frescura degli alberi. L’occasione era propizia per i giovanissimi poiché potevano scambiare qualche parola, lanciarsi occhiate complici, magari decidere un appuntamento innocente. L’immagine che serbavo di quel semplice contesto si accompagnava a un senso di grande serenità, di composta festosità, di semplicità, connotati positivi che ho potuto attribuire congiuntamente a poche altre situazioni.

Il momento magico di quel contesto era però la messa cantata per la festa del patrono, Sant’Agostino, il ventotto di agosto. La solenne funzione veniva concelebrata da tre officianti, uno dei quali era sempre un belviese. Sì, perché anche Belvì aveva i suoi prelati. Erano due, credo coetanei, Vincenzo e Orazio, parte di una folta schiera di seminaristi, tali non per vocazione, ma perché era l’unico modo di raggiungere un titolo di scuola superiore o una laurea. Vincenzo e Orazio avevano trovato la strada del Signore e la loro investitura, celebrata in paese, era stata un evento. Forse è stata la messa più solenne alla quale abbiano assistito i belviesi, sia per la presenza del vescovo, sia per la liturgia fastosa. Nella chiesa stracolma di gente commossa, rivedevo i due consacrandi a mani giunte prostrati davanti all’altare maggiore, col viso che sfiorava il pavimento, immobili. Un atteggiamento di estrema umiltà, di totale dedizione, di rinuncia a una propria vita che, pur bambino, mi colpì. Mi rimase nel cuore la profondità di quella decisione che non capivo e che mi sembrava grave e terribile. Il senso d’assoluto che la contraddistingueva riaffiorava in me ogni qual volta varcavo la soglia di una chiesa, scatenando un’emozione senza confini, irrefrenabile, coinvolgente. Una sorta di richiamo del quale sono sempre stato consapevole e al quale, a un certo punto della mia vita, ne ero certo, avrei dato, darò una risposta.

Al gruppo dei seminaristi che aveva sfornato i due preti apparteneva anche il primo laureato del paese, Millo, un simpatico rotondetto col quale c’era un indecifrabile rapporto di parentela, forse da parte di zia Tana. Si era laureato in lettere e questo titolo aveva dato lustro al paese. Giunto a Belvì dopo l’esame di laurea, tutti lo volevano festeggiare. Tra chi lo invitava a pranzo e a cena, chi lo chiamava per offrirgli un caffè o un bicchiere di vino, v’era una gara ad averlo a casa per potersi vantare della sua amicizia, e lui, che già non si poteva dire longilineo, finì per assumere quella forma tondeggiante che gli dava tanto l’aria della bontà, della pacatezza, dell’equilibrio. Era diventato senza volerlo la persona più importante del paese, e quindi sembrò naturale che alle prime elezioni fosse candidato e acclamato sindaco. Erano tempi nei quali la cultura veniva considerata un livello al di sopra degli aspetti pratici della vita e si credeva fosse in grado di migliorare le qualità dell’uomo, di elevarlo, di dargli forza spirituale. Un sindaco con tali prerogative avrebbe certamente dato lustro al paese e restituito fiato a un’economia sempre più asfittica.

Millo però non ebbe il tempo di dare risposte alle giuste aspettative della gente. Morì qualche tempo dopo la sua elezione per un tumore cerebrale. La prima avvisaglia la ebbe al bar mentre chiacchierava centellinando, anche lui non difettava in parsimonia, un bicchiere di birra. Fu colto da una crisi convulsiva e perse conoscenza. Per tutti cessò di vivere in quel momento, perché fu subito chiaro che non sarebbe tornato a essere lo stesso. Fu operato con successo (incappò in quel genere di operazioni definite tecnicamente ben riuscite nelle quali il chirurgo salva la sua professionalità, ma non la tua vita) e sembrò che recuperasse. Tornò pure qualche giorno in paese, ma agli occhi della gente era già un fantasma e l’unico a credere di poter continuare a vivere era solo lui. Chiuse gli occhi un anno e qualche mese dopo quel primo sintomo, lasciando un vuoto incolmabile.

I belviesi scelsero come suoi successori altri compaesani istruiti seguendo per un certo periodo la falsariga del titolo di studio, ma quanta delusione! Chi ebbe la responsabilità di amministrare, di guidare le scelte della piccola comunità, nel tentativo di farla crescere, di darle benessere e felicità, fallì miseramente, dimostrando palesemente come il grado d’istruzione non fosse direttamente equiparabile né alla capacità di amministrare, né alle qualità umane dell’individuo. Anche i belviesi compresero che le virtù dell’uomo possono essere solo preesistenti alla cultura, la quale può farle emergere, affinarle, non generarle.

Il pensiero della morte di Millo richiamò alla mente una considerazione che avevo fatto qualche tempo prima relativa al sentimento di perdita che a quell’accadimento tragico si accompagna. Avevo notato che quando qualcuno muore, se è vero che ci viene a mancare la sua presenza fisica, ciò che si perde irrimediabilmente (ciò giustifica in realtà il vuoto che sentiamo) sono il suo personale modo costruire pensiero, il suo punto di vista, la sua prospettiva, la sua esperienza, tutti strumenti di comprensione unici che nessuno potrà mai più utilizzare, come pure l’intera gamma dei suoi sentimenti che, spegnendosi, non potranno più generare felicità o digerire un po’ di tristezza del mondo. Questa la vera mancanza, grande se si ha condiviso con lui parte della propria vita e ancor di più se, abituati a confrontarsi e a misurarsi con quelle singolari prospettive, non si hanno più quei punti di riferimento. Ci si rende conto di aver perso un pezzo di se stessi ed effettivamente questo accade perché il nostro intero è indissolubilmente legato a chi ci sta vicino. Se poi costui ci ama e lo riamiamo, il pezzo di noi che perdiamo è tanto grande da non poter essere più ricostituito.

Alla messa Millo era tra quelli che non mancavano mai, e per quella del patrono si dava da fare in mille modi perché riuscisse al meglio. Assieme a don Orazio, che di solito non concelebrava, non ebbi mai a capire il perché, organizzavano i canti nel coro in quel giorno gremito. Partecipavano tutti. Suonava l’organo il più bravo e si cantava la liturgia a quattro voci. Dall’introduzione alla benedizione, la piccola chiesa veniva inondata da una marea di note, gravi, dolci, profonde, che penetravano l’animo più d’ogni parola. Assieme al profumo d’incenso che saliva in piccole nubi dense dal turibolo, quelle note permeavano l’aria a risvegliare i cuori, ad accendere le menti, a rinnovare quel sentimento di devozione tanto radicato in chi possiede un animo semplice.

La predica sulla vita del Santo era solitamente affidata a un frate, chiamato appositamente. Non ricordavo se fosse sempre lo stesso, ma avevo presente i sandali aperti che portava lui, o i suoi confratelli: erano l’elemento in comune, il loro segno distintivo. Una predica roboante, irruente, talora verbosa. In alcuni passi sembrava che la responsabilità delle scelte sbagliate del Santo fosse dei poveri belviesi. Il frate narrava della vita da libertino da giovane, poi dell’improvvisa conversione, della viva e profonda intelligenza del Santo e del suo grande impegno spirituale al servizio della fede e del Cristianesimo. Citava la monumentale opera di padre della Chiesa e la grande mole di scritti. La conclusione comunque era sempre la stessa e cioè che Belvì e i belviesi dovevano essere proprio orgogliosi di avere per patrono Sant’Agostino. Cosa della quale invero tutti andavano fieri, non fosse che per l’irrequietezza giovanile che lo faceva più umano, più vicino alle debolezze di quanti ascoltavano quella predica.

La liturgia di quella funzione tanto sentita si concludeva con la processione solenne. La statua del Santo, esposta sino a quel momento in un lato della navata centrale, veniva sollevata alla base con due lunghe spranghe di legno e portata a spalle da otto membri della confraternita. Completamente vestiti di bianco, con una corda per cintura, incappucciati, li ricordavo con paura, forse perché mi sembravano fantasmi. A loro spettava la vestizione del simulacro, che avveniva il giorno precedente in una soffitta della chiesa alla quale si accedeva dal coro. Era un luogo misterioso, affascinante, ma che in noi bambini incuteva paura. Poco illuminato, il pavimento in legno con diverse assi sghimbesce, la testa di chi trafficava a sfiorare le travi del tetto di tegole, era completamente ingombro di arredi sacri, di candelabri, di simulacri di madonne e di santi, fatti solo di testa, mani congiunte in preghiera, o benedicenti, e piedi. Erano collegati tra loro da lunghi bastoni, che ovviamente non si vedevano dopo che il simulacro era stato vestito con i paramenti sacri. Di quel luogo che poco avevo frequentato conservavo un ricordo netto ma spiacevole; sarà stato per la penombra mai rotta da una luce artificiale, per i manichini, per il tanfo, per i topi che circolavano. Un’immagine scolpita nel mio cuore di bambino a rappresentare ogni luogo di mistero, ogni angolo inesplorato e inesplorabile del proprio io. Ogni luogo da cui rifuggire.

La disposizione dei partecipanti alla processione, codificata dalla tradizione e nel tempo, era sempre la stessa. Il corteo, su due file parallele, s’apriva con i fanciulli guidati dalle suore che non riuscivano a frenarne l’irrequietezza. Seguivano le ragazze dell’azione cattolica, praticamente tutte quelle del paese poiché non era possibile non farne parte. Immaginiamoci! Chi avrebbe osato sfidare il prete e soprattutto le bigotte del paese! C’era il rischio di essere considerate poco timorate di Dio e quindi non raccomandabili. Per la processione del patrono, irripetibile vetrina, c’erano tutte. Poi venivano le donne maritate e le vedove. Reggevano in una mano grossi ceri ornati di fiori di carta e nell’altra il rosario e cantavano l’Ave Maria in sardo. Le maritate e le vedove si distinguevano solo per il colore delle vesti (in nero le vedove, in grigio o marrone dimesso le altre), poiché la fatica che portavano sulle spalle e che segnava i loro volti, le mani, il corpo, era la stessa. Poi, primi uomini della processione, i membri della confraternita, col rosario in mano, precedevano la statua del Santo portata a spalla da otto di loro, che si alternavano nel canto di litanie che non si capiva bene se fossero in sardo o in latino. Subito dopo il simulacro i celebranti, che cantavano in latino brani gregoriani o salmi. Dietro di loro tutto il paese. Chi non partecipava era al bar, ma comunque al passaggio del Santo si scopriva il capo e si segnava con un segno di croce.

Anche il percorso della processione era sempre lo stesso. Dal piazzale della chiesa, il corteo prendeva la strada dove vi era la fontana, poi saliva sulla strada principale, la Via Roma, percorrendola sino alla grande piazza. Da qui s’inoltrava in Via Lamarmora per la zona alta del paese scendendo poi, incrociando di nuovo la Via Roma, in quella bassa per tornare infine nel piazzale della chiesa, dove si scioglieva. Praticamente venivano toccati tutti i rioni, salvo i più periferici, a portarvi la benedizione e la benevolenza del santo patrono.

Quando la processione sfilava davanti alla piazza veniva dato fuoco a una batteria di fuochi d’artificio situata sotto il muraglione. Iniziava allora una serie prolungata di scoppi che si tentava di far concludere, con un boato tremendo, al passaggio del simulacro del santo. Talora capitavano inconvenienti tecnici che ritardavano l’accensione delle micce e l’inizio degli scoppi e questa sfasatura ritardava il botto finale che si verificava quando il corteo era passato. Si accendevano allora aspre diatribe tra gli addetti ai fuochi d’artificio che si scaricavano l’un l’altro la responsabilità del fallimento.

Fiancheggiavano la processione alcuni ardimentosi, tali li consideravo visto il pericolo che correvano, che di tanto in tanto facevano partire dalle loro mani piccoli razzi, i coettes, che esplodevano in aria a una decina di metri dal suolo dopo aver percorso una traiettoria abbastanza imprevedibile. Tanto imprevedibile che qualche volta era capitato che scoppiassero in qualche casa dopo essersi infilati in una finestra, oppure a terra in mezzo alla gente. Una continua apprensione che non tutti vivevano con allegria, al punto che si era formato un partito di abolizionisti dei coettes e, per estensione, di ogni tipo di botto. Anche perché era capitato che qualche ragazzino, finiti gli scoppi della batteria sotto il muraglione, fosse andato a cercare qualche residuo inesploso e che in questa operazione ci avesse rimesso un dito della mano o si fosse comunque ferito portando nel tempo i segni di tale imprudenza.

Durante il tragitto della processione i canti dei vari gruppi di partecipanti alla processione s’incrociavano, si sovrapponevano, si confondevano, sino a disperdersi in alto, nel cielo. Le voci bianche dei fanciulli e delle giovani donne, acute e stridule, anticipavano la processione nelle stradine e nei vicoli. L’Ave Maria cantata in sardo dalle donne non riusciva a coprire i suoni gravi delle litanie dei membri della confraternita. Il canto gregoriano dei celebranti che accompagnavano il simulacro ammutoliva la grande massa di fedeli che li seguiva. Chi stava in fondo al corteo aveva scelto quella posizione per poterlo abbandonare una volta giunti in prossimità della propria casa. Era un’abitudine consolidata e nessuno ci faceva più caso. Quando il corteo si riaffacciava nel piazzale della chiesa dietro i celebranti la massa dei paesani si era quasi dimezzata.

Conclusasi la funzione sacra il paese s’immergeva negli aspetti profani della festa. D’obbligo la passeggiata lungo la strada principale del paese con sosta in piazza, vetrina per mostrare i segni del proprio status, della propria scalata sociale ed economica! E se c’era chi poteva sfoggiare un nuovo e vistoso abito, v’era pure chi orgogliosamente presentava l’ultimo rampollo della già numerosa famiglia. I pochi che avevano la macchina, solitamente emigrati in vacanza, la ostentavano con evidente soddisfazione. Dopo il giro di rito con tutta la famiglia a velocità ridotta per farsi ammirare, l’auto veniva esposta in piazza, tirata a lucido, a soddisfare la curiosità di coloro che non ne avevano mai viste, almeno da vicino. C’era chi vi s’infilava sotto, chi chiedeva di vedere il motore, chi sfiorava con tocco di mano leggero le cromature brillanti. A qualche fortunato il privilegio di sedersi al volante. A motore spento naturalmente! A noi ragazzini le briciole. Solo qualche guardatina da lontano e tanti “non toccare”, “non appoggiarti” e via dicendo.

I capannelli familiari in piazza, i giovani sottobraccio in larghe file lungo la strada, i vecchi seduti sul muraglione, i bambini che si rincorrevano festanti, tutto il paese era lì. Era un parlare fitto fitto, un incrociarsi di occhiate che volevano passare inosservate, un annuire distrattamente, un gesticolare animato. Una sbornia di chiacchiere, di pettegolezzi, anche di maldicenze. Lui, lei, questo, quelli, l’uno, gli altri, ci passavano tutti. Ma anche un momento per comunicare, dialogare, confrontarsi, senza gli affanni, la fretta, i problemi di tutti i giorni. E ciascuno si sentiva partecipe di una realtà comune, di un’idea di vita condivisa, di una prospettiva per il futuro che accomunava. Era la circostanza più favorevole perché si consolidasse quel sistema di rapporti nel quale il farsi i fatti degli altri è parte integrante della vita della comunità, anzi ne costituisce il nocciolo duro.

Il programma dei tre giorni di festa si ripeteva di anno in anno. Il ventisette, la vigilia, alla sera, i balli sardi in piazza mentre la notte si ascoltavano i tenores in limba (i cantori in lingua), che improvvisavano su un tema prestabilito, comunicato loro prima di salire sul palco, accompagnati dal coro di baritoni e di bassi che si limitavano a un tradizionale e gutturale “bin-boi”, a più voci. Era la serata per gli adulti e per gli anziani che amavano quel tipo di musica perché quella avevano conosciuto e perché in fondo era parte della loro cultura; mentre i giovani, un po’ come capita per la lirica, non l’apprezzavano. Troppo dissimili i ritmi fisici e mentali delle due età e quindi i gusti. Anche per i balli sardi in piazza si verificava una sorta di contrapposizione tra adulti e giovani. Questi ultimi partecipavano ai balli, ma inesperti e insicuri nei movimenti finivano per intralciare la compostezza, il passo, la serietà di quanti memori della tradizione vivevano quella danza come un rituale importante nella vita della comunità, con significati che oltrepassavano il puro e semplice divertimento, significati che negli anni sono andati via via perdendosi. Nata come rito propiziatorio per accattivarsi la benevolenza degli dèi, di certo la danza era sempre stata anche l’occasione più favorevole per scegliere tra le donne del villaggio la propria compagna. La stretta di mano e il contatto tra i corpi dell’uomo e della donna che ballavano fianco a fianco, la scioltezza e l’armonia dei movimenti che in quel contatto si potevano cogliere, le fragranze della donna così vicina, erano elementi più che sufficienti per scegliere, per capire, per decidere. E in un mondo pastorale che offriva così pochi momenti di promiscuità il ballo era importante, vitale. Ecco perché l’agitazione scomposta dei giovani dava tanto fastidio agli anziani, che scuotevano la testa, e appariva fuori luogo. Bene o male però tutti, vecchi, adulti, giovani, finanche i bambini, finivano per fare qualche passo di danza e ciò favoriva il tramandarsi di generazione in generazione di quell’espressione della tradizione che, al pari della cultura, rischiava di essere persa per la contaminazione che la modernità aveva introdotto. Qualche vecchio disponibile, depositario delle tecniche di ballo più antiche, dava dimostrazione, insegnava come si doveva procedere, come canalizzare la straripante scompostezza giovanile, come trasformare un sentimento interiore in piccoli passi, come dare a un ritmo musicale un contenuto interiore. Io rimanevo incantato a guardare le coppie di anziani che ballavano, quasi immobili tanto i passi erano piccoli, senza invadere il centro della pista, senza volersi imporre all’attenzione, senza disturbare, con una compostezza che raccontava di speranze, di illusioni, di fatiche, di dolore, di gioia, di rabbia, di bontà, di ostinazione, di incomprensioni e di solidarietà. Sì, perché tutte queste cose assieme erano, e sono, il ballo. Una prospettiva particolare per leggere la loro storia, la loro vita, e non già una banale espressione di folklore o ancor peggio un divertimento!

Il ventotto la messa solenne, con la processione la mattina. Il pomeriggio era consuetudine dedicarlo alle manifestazioni sportive, tra le quali la corsa con gli asini. Vi partecipavano alcuni dei miei compagni di gioco. La gara partiva dalla curva di S’olia, a qualche centinaio di metri dalla piazza, e si concludeva proprio in piazza tra la gente eccitata e festante. L’asino veniva cavalcato a pelo e considerata la particolare morfologia della colonna vertebrale dell’animale, un coltello tagliente tra le gambe del cavaliere, non era facile uscirne indenni. Occorreva, e questo lo sapevo anch’io, ma tra il dire e il fare c’è sempre di mezzo il mare, stare praticamente in ginocchio sulla schiena dell’asino stringendo le cosce per un minimo di stabilità da un lato e per evitare traumi alle parti basse dall’altro. Con le mani poi ci si doveva afferrare al collo dell’animale e non mollare mai. Si correva col sedere all’insù con una precarietà di posizione per la quale non era strano incorrere in cadute, in capitomboli, in ruzzoloni. Di solito chi giungeva all’arrivo non era più sul dorso dell’asino, ma aveva finito per percorrere gli ultimi metri appeso mani e piedi al collo dell’animale che in quella situazione non obbediva più a nessun comando. Il cavaliere più bravo si chiamava Lelle, diminutivo di Raffaele. Ogni anno vinceva lui. S’incollava sulla schiena dell’asino diversi minuti prima della partenza e non vi si staccava più. Al via spronava l’animale con alte grida, io credo che gli desse anche qualche morso visto che teneva la bocca proprio vicino alle orecchie, e partiva senza nessun timore verso il traguardo. Anche lui però talora vi giungeva attaccato al collo dell’asino che gli ricambiava qualche morso in modo non proprio bonario. Finita la gara, lui Lelle, il vincitore si rilassava e si ergeva dritto sul dorso della bestia, ma siccome tutti covavano il desiderio di vederlo disarcionato c’era chi si premurava di dare calci negli stinchi all’asino che cominciava a scalciare e a tentare di scrollarsi di dosso il peso. Non ricordo di averlo mai visto cadere. Un vero fenomeno!

L’avvenimento più importante di quella giornata di festa era però il film che veniva proiettato in piazza la notte. La macchina da presa veniva piazzata nel balcone della nostra casa mentre sul muro della casa situata di fronte veniva steso un lenzuolo a due piazze con dietro l’altoparlante in modo che si avesse l’impressione che le voci venissero proprio dalla bocca dei protagonisti. Ogni spettatore doveva portarsi la sedia da casa se non voleva assistere in piedi alla proiezione. La piazza di solito si riempiva per intero. I bambini in prima fila, gli altri alle loro spalle. Le mamme con le figlie accanto, gli uomini e i vecchi più indietro sino alla muraglia. L’attesa era animata. Le voci di chi si era già accomodato si scontravano con quelle di chi cercava posto e voleva passare o con le altre di chi doveva stringersi per fare posto a nuovi sopraggiunti. Quando la piazza era colma, e ciò significava che l’intero paese s’era accomodato, le grida, le voci, il brusio s’acquetavano e ci si predisponeva in trepida attesa all’inizio della proiezione. I più stavano col naso all’insù e guardavano verso il balcone della nostra casa, dove l’operatore aveva il suo bel da fare per approntare macchina e pellicola, vecchie entrambe. Finalmente, a un suo cenno, la guardia comunale spegneva le luci e, in mezzo ad un “ooh!” generale, si restava per un attimo al buio. Le prime immagini e le note della musica della colonna sonora spegnevano definitivamente l’impazienza che ancora serpeggiava e accendevano negli animi di quella gente semplice una commozione incredibile, tanta era la meraviglia di fronte allo spettacolo. Un fascio di luce bianca e grigia, almeno così si vedeva nel suo tragitto dalla macchina da proiezione allo schermo, un fascio di luce che si trasformava in immagine, in suoni, in una storia, in emozioni, in pianto, in risa, in gioia. Quasi un incantesimo, di un’attrattiva senza pari. Questo allora era un film!

In genere si trattava di vecchissimi film che subivano diverse interruzioni perché si spezzava la pellicola. Erano storie d’amore appassionate, tormentate, ma a lieto fine, che riempivano di lacrime i fazzoletti appositamente portati. Vi trionfava la verità, la giustizia, l’amore, a vincere erano sempre i buoni sentimenti e alla fine i protagonisti finivano per vivere felici e contenti. Come nelle favole. Nel buio della piazza ciascuno liberava la propria emotività, che compressa dalla quotidianità, dalle difficoltà del vivere, dalle avversità, trovava in quell’occasione una valvola di sfogo. I visi rigati di lacrime che si osservavano per qualche istante quando una scena molto chiara illuminava la platea ne erano il segno tangibile ed evidenziavano una partecipazione alla storia raccontata nel film quale solo nei bambini si può trovare. Totale, incondizionata. Quando compariva la scritta “fine primo tempo” la pellicola, che continuava a proiettare per qualche secondo una serie di diagrammi incomprensibili, dava modo alla gente di ricomporsi assumendo un aspetto più distaccato. In quel breve intervallo ci si rifocillava con qualche dolcetto e ci si alzava in piedi per allentare i brividi di freddo che l’immobilità e una fresca brezza, che di solito non mancava in quelle sere di fine estate, generavano.

Solo i giovani maschi non erano interessati alla proiezione. Approfittavano del buio per qualche furtivo approccio o per tentare di convincere a sgattaiolare dalla piazza per qualche minuto la fanciulla che corteggiavano. Il film distraeva le madri dal controllo assiduo e non era difficile assentarsi con la scusa di tornare a casa per prendere uno scialle o qualcos’altro. Quanti matrimoni hanno celebrato l’antifona durante la proiezione del film! Unica avvertenza era di ritornare prima della fine del film.

Quando compariva la parola “fine” nel quadro, il silenzio quasi religioso che aveva accompagnato la proiezione veniva sostituito da una vociare infreddolito e assonnato e si notava nelle facce della gente quella sorta di delusione che nasce dal fatto che qualcosa di piacevole è finito e che si deve ritornare alla realtà. I bambini addormentati venivano portati via in braccio dalle madri, mentre tutti gli altri si prendevano sottobraccio più per superare la momentanea malinconia che per la stanchezza sopraggiunta. La piazza in pochi minuti si svuotava. Dove prima v’era tanta vita, tanta emozione, rimaneva un vuoto desolato e mesto. Solo l’operatore e la guardia comunale che lo aiutava continuavano ad armeggiare sul balcone per smontare tutto, rimettere a posto, restituirci il tavolino che avevano avuto in prestito per poggiarvi la macchina e finalmente liberarci dell’impiccio. E ovviamente noi che li ospitavamo dovevamo attendere che se ne fossero andati per poterci coricare.

Una volta a letto ripercorrevo a occhi aperti e da protagonista la storia del film. Era il momento migliore della pur intensa giornata. Solo con i miei pensieri, nel buio avvolgente delle prime ore della notte, al caldo sotto le coperte, lasciavo che si dischiudesse lentamente il mondo dell’immaginario, tanto vero, per la fedeltà con la quale lo ricostruivo, da competere con la stessa realtà. Il film ricominciava dai titoli e questa volta non solo lo vedevo o lo interpretavo, ma lo vivevo. Una storia vera che generava in me viscerali emozioni. Gioivo, ridevo, sommessamente però per non farmi sentire dai miei fratelli che dormivano nella stessa stanza, piangevo calde lacrime bagnando la federa del cuscino, provavo paura, angoscia, mi disperavo, intristivo, mi rasserenavo, esultavo felice. Era come se una nuova esperienza si assommasse a quelle già acquisite e intuivo che questo poteva essere un meccanismo per ampliare notevolmente il mio orizzonte. A condizione che il sogno a occhi aperti avesse i connotati della realtà, cioè che la qualità emotiva fosse la stessa.

Nel tempo ho potuto costatare come quella intuizione fosse vera e che il fantasticare, che ho utilizzato spesso per godere di emozioni che altrimenti mai avrei sperimentato e per superare alcuni momenti difficili della mia vita, si è rivelato uno strumento per me insostituibile. Tanto da creare una corrispondenza univoca per la quale quando ero felice, quando ero soddisfatto della mia vita, allora ero più propenso a sognare a occhi aperti, mentre quando ero triste non me ne veniva voglia. Come dire che piove sul bagnato nel senso che se sei felice puoi esserlo anche di più, se sei disperato forse è meglio che resti immobile in attesa di tempi più propizi.

Il ventinove mattina veniva celebrata una messa dedicata al santo protettore degli animali. Dopo la funzione si svolgeva una processione di animali sullo stesso percorso del giorno prima. Accompagnati dai rispettivi padroni precedevano la statua del Santo. Vi partecipavano, e l’ordine era in funzione dell’importanza e del valore delle bestie, gatti, cani, pecore, capre, buoi. Questi ultimi, condotti in coppia, erano ornati nel giogo con intrecci di rose, mazzi di spighe e nastri colorati. Uno spettacolo! Alla processione non mancava mai Cixireddu, con la sua coppia di buoi tirati a lucido. Era un tipo piccolo, rotondetto (da qui il nome), simpatico, gioviale, sempre allegro. Aveva una voce roca inconfondibile con una ritmica sincopata, alti e bassi si alternavano regolarmente, e un fraseggio fatto di “ohi, ohi” con le mani portate alla testa, “tocca non mi stontonese (dai non stordirmi)”, “isculta tue (ascolta tu invece)”. Amava la compagnia e ne era spesso l’animatore. Mi venne in mente un episodio accaduto durante un soggiorno di studio in paese. Avevamo procurato con un’azione rapida e ben condotta, e l’avevamo era riferito al solito gruppo di amici buontemponi e gaudenti, un piccolo asinello, piatto forte per uno spuntino. Se catturarlo era stato un divertimento, il fatto di doverlo uccidere era un problema. Cixireddu, che abitualmente macellava capi bovini, era stato incaricato della bisogna, ma di fronte a quel piccolo animale si era fatto prendere dalla compassione.

Ohi, ohi ‒ si doleva. ‒ No, no, non tegno su coro (no, non ho il coraggio). ‒ Giajemmi unu boe e du occio, ma custu minore! (Datemi un bue e lo uccido, ma questo innocente!)

Le sollecitazioni a concludere non lo smossero d’un rigo, ma la possibilità di rimettere in libertà l’animale e rinunziare allo spuntino gli fecero venire in mente che forse poteva suggerire ad un altro come fare. Si prestò come allievo, il temerario della compagnia, l’attaccabrighe per antonomasia, un senza Dio dal cuore duro (almeno in superficie), ma il risultato, vista l’inesperienza, fu disastroso. L’animale non moriva e soffriva indicibilmente. Cixireddu di fronte a tale scempio non seppe resistere e intervenne con un colpo decisivo ponendo fine a quella prolungata agonia. Compresi appieno in quel frangente il perché i condannati chiedessero di essere giustiziati da mani esperte e confidassero in un boia capace.

Non si pode occiere goy (non si può uccidere così) ‒ ripeteva continuamente durante i preparativi dello spuntino. ‒ Non si pode (non si può). Ma quando la carne fu in tavola, come accade quando l’irresponsabilità e la superficialità giovanile la fanno da padrone, mise da parte il triste stato d’animo e ci fece divertire più che mai.

Nei giorni della festa venivano a esporre la loro mercanzia alcuni venditori ambulanti. Arrivavano su piccole motocarrozzelle il pomeriggio della vigilia e passavano le prime ore, con noi ragazzini attorno come le mosche, ad approntare il banco di esposizione della merce sotto il quale ubicavano il giaciglio per la notte. La sera, alla luce delle lampade a carburo, si potevano ammirare le mercanzie ed incominciare a desiderarle. Colpivano la fantasia tutte le mercanzie più strane, ma alla fine l’acquisto si indirizzava verso l’oggetto attorno al quale si potevano costruire più storie, col quale si poteva fantasticare di più, quello che completava al meglio quanto già si possedeva. Chi aveva una pistola comprava la stella da sceriffo, o il berretto da cowboy, oppure il fucile o un binocolo. Chi aveva l’arco acquistava il copricapo con le penne da indiano o un coltello di plastica col fodero. Allora era inimmaginabile dimenticare in una cantina quanto era stato comprato precedentemente sostituendolo con un nuovo arrivo! Una perdita inconsulta agli occhi di chi aveva imparato a non dissipare mai nessuna risorsa. L’acquisto, una volta deciso, era comunque sofferto. Non si comprava mai subito, correndo persino il rischio di non trovare più l’oggetto prescelto. Si aspettava permettendo al desiderio di consolidarsi, affinarsi, definirsi nelle sua interezza. Poi si contrattava a lungo e in momenti diversi con la speranza di prendere per stanchezza il venditore. Talvolta si aspettava che stesse per lasciare il paese per rinnovare la richiesta di acquisto, ovviamente a un prezzo ancora minore a quello offerto nei giorni precedenti. Un travaglio spesso fruttuoso!

Avevo desiderato un anno e posseduto quello successivo una pistola ad acqua, con la quale ingaggiavamo lunghe e rinfrescanti battaglie, e uno yo-yo che si era guastato subito e che non ero più riuscito a riparare. Mai potei comprare una pistola con cartucce, costosa e forse pericolosa. Le avevo fatto la corte a lungo, ma l’avversione di mia madre per le armi era stato un ostacolo insormontabile. Non ricordavo altri acquisti.

Questa modalità di costruzione del desiderio, che avevo di certo interiorizzato a quell’età, in me era rimasta immutata. E da adulto, pur avendo raggiunto la condizione di poterli soddisfare con facilità, continuavo come allora a non concedermi tutto e subito, come pure a non mettere da parte ciò che mi era stato e mi era ancora gradito. Buttar via il vecchio e amato giocattolo per sostituirlo con il nuovo acquisto, magari più stimolante, mi sembrava un comportamento irragionevole, uno spreco ingiustificato.

Il tempo peraltro, e in questo fu maestro, ebbe ad affinare in me l’arte di costruire lentamente e consapevolmente il desiderio. Mi piaceva coltivarlo, cullarlo, avvertirne la piacevolezza, dargli prospettive diverse, ipotizzarne il soddisfacimento in contesti differenti, in situazioni anche inusuali. Senza fretta. Mi ero andato convincendo, e ormai non avevo più dubbi, che questo tempo d’attesa, del tutto irripetibile, valesse la pena di essere vissuto come quello in cui il desiderio trovava il suo compimento, che fosse capace di dare spessore ad una storia oppure di impedirle di nascere se non ne valeva la pena, che fosse la condizione indispensabile per non lasciarsi sopraffare da quell’ingordigia che divora ogni cosa e che, senza freno, finisce per annichilire anche le più grandi emozioni.

E se l’irruenza giovanile molto aveva contrastato questa tendenza e spesso aveva bruciato tutto il desiderio e le sue storie possibili in una unica fiammata, il rammarico, constatato più volte, della brevità e dell’irripetibilità di quelle emozioni, nonostante la loro grande intensità, mi aveva fatto comprendere come quella modalità di approccio tanto immediata non mi fosse congeniale, non appartenesse al mio io. Non ero medico da pronto soccorso capace d’improvvise intuizioni, di scelte rapide, di terapie istantanee ed aduso a dimenticare poco dopo averli visti i pazienti. Avevo bisogno di un’analisi più approfondita, di una riflessione lenta, e non per trovare “la soluzione”, l’unica via, il valore assoluto, quanto per costruire, anche se con difficoltà, un equilibrio. Che ho vissuto sempre in bilico, instabile, che mi costringeva a un continuo lavoro di aggiustamento, di riposizionamento, di revisione, ma che teneva conto di ogni esperienza passata e presente della mia vita.

Accanto alle bancarelle di giocattoli se ne installavano altre ben più frequentate. Erano quelle che vendevano muggini e anguille arrostite. Attrezzate la mattina della festa. duravano solo un giorno, il tempo di vendere tutto il prodotto e poi sparivano come erano comparse. Su una lamiera di ferro, resa viola dal calore, veniva acceso un fuoco di tralci di vite secchi che formavano rapidamente uno strato continuo di brace ardenti. Su una grande graticola i pesci in pochi minuti e un paio di girate cuocevano a puntino. Offerti bollenti e ben salati si mangiavano con le mani tenendoli con le punta delle dita per non scottarsi. La curiosità per quell’alimento infrequente sulle tavole del paese spingeva gli uomini, solo loro, almeno a un assaggio, poiché nessuna donna si sarebbe avvicinata mai a quell’assembramento gustativo tanto animalesco. Tenuto conto poi che le donne della Barbagia erano abituate in casa loro a non sedersi mai a tavola con gli uomini, limitandosi a servirli in un continuo andirivieni, presenti, attente e silenziose, figuriamoci se potevano pensare di partecipare in qualche modo a quella gozzoviglia tutta maschile!

L’arsura che tanto sale sul pesce provocava veniva spenta nelle paradas , una sorta di bettole costruite all’aperto con frasche fresche di castagno ricche di grappoli di ricci ancora chiusi. Sotto le frasche lunghe panche annerite dall’uso e su un tavolo, che faceva da bancone, i bicchieri che si lavavano sommariamente immergendoli in una bacinella piena d’acqua che vi stava sotto. Si beveva prevalentemente birra. A casse. Le bottiglie erano tenute al fresco in grandi tini pieni d’acqua nei quali si aggiungevano pezzi di ghiaccio. Si beveva, si chiacchierava, si beveva un’altra volta, si facevano altre chiacchiere. Ciascun componente della compagnia offriva una bevuta a tutti gli altri e non si smetteva sino a che il giro non si era concluso. Se nel frattempo la compagnia s’era fatta più numerosa, non importava che gli aggiunti fossero conosciuti o meno, si ricominciava daccapo il giro. Se nel gruppo degli invitati v’era qualcuno che non poteva bere, un bambino od una donna, a loro, purché fossero partecipi, veniva data una manciata di caramelle. Nessuno poteva rifiutare l’invito alla bevuta collettiva e questo era il motivo per cui un astemio era bene non si avventurasse sotto quelle frasche.

Non mancava mai nelle paradas la morra alla quale partecipavano tutti, belviesi, abitanti dei paesi vicini e forestieri. Di solito le sfide alla morra (era usanza giocarla in coppia) si accendevano la sera.

Unu (uno), battero (quattro), deghe (dieci), otto, mudu è su meu (muto è il mio). Diverse parlate dialettali si mescolavano in un crescendo che da divertito e scherzoso s’infiammava sotto l’influenza dei fumi dell’alcool, per divenire una competizione aspra, talora violenta. Affiorava la “balentia” barbaricina. Il gioco non era più gioco, e ogni mezzo era buono per conquistare la vittoria. Si cominciava dalla derisione bonaria dell’avversario per farlo innervosire per giungere a una palese provocazione che gli faceva perdere il controllo. In quel contesto era facile che emergessero le rivalità di campanile, o le diatribe politiche, o ancora i fatti personali. Le parole sfuggivano di bocca, alle battute si sostituivano pesanti allusioni. L’alcool dissipava ogni freno inibitore ed a quel punto era quasi inevitabile la zuffa. Di solito tutto finiva con qualche occhio nero e vaghe minacce di rappresaglia, ma un paio di volte almeno accaddero gravi fatti di sangue che costrinsero le autorità a proibire per qualche tempo il gioco.

Come gli abitanti dei paesi vicini frequentavano la festa del patrono a Belvì, così era abitudine dei belviesi partecipare alle feste nei paesi vicini. Ci si scambiava una visita, diciamo così, di cortesia. Ora, considerato che tutte le feste si svolgevano nel periodo estivo, che nessuna si sovrapponeva all’altra e che ciascuna durava due o tre giorni, si poteva ben capire come d’estate ogni fine settimana fosse occasione di bisboccia o di bisticci. Uno dei motivi che più li provocava era la gelosia che ogni paese aveva per le proprie donne giovani o adulte che fossero. Come non era gradito che gli estranei le importunassero così neanche era permesso avvicinarle, fare amicizia, corteggiarle. Un’eventuale conquista non era ipotizzabile! Ora se il fine era quello di riservare per sé caccia e selvaggina, mai regime di protezione, evidentemente non richiesto ed inopportuno, era tanto disatteso e vanificato. Anzi questo atteggiamento di preclusione per gli stranieri finiva per essere un vantaggio per chi veniva da fuori a patto che dimostrasse di saper tenere la bocca chiusa. Il sapersi tenere per sé le proprie cose era in quel frangente la dote più apprezzata dalla signorine, che si divertivano ad irritare i propri compaesani ostentando una disponibilità ed una cordialità inusuale. Era inevitabile in quelle circostanze che insorgessero violenti scontri verbali, passaggio obbligato verso vie di fatto estreme. Era capitato a Tonara, un paese della stessa vallata di Belvì. Un giovane desulese in occasione di una festa si era intrattenuto lungo la strada principale in gradevole conversazione con una ragazza del luogo che condivideva quel piacere. Un gruppo di balentes tonaresi gelosi aveva deciso che quell’oltraggio dovesse essere punito in modo esemplare e si era appostato all’uscita del paese per saldare il conto. Dieci contro uno. Vigliacchi, ma determinati. Il desulese che tornava a casa a piedi, allora non c’erano macchine, resosi conto di essere circondato tirò fuori una leppa (un coltello a serramanico tipico dei luoghi) preparandosi ad affrontare con decisione i suoi aggressori. La tecnica barbaricina insegna che non è utile cercare di tenere a bada l’intero gruppo, ma occorre rapidamente scegliere il bersaglio e colpirlo, anticipando le mosse degli avversari. Così fece e accoltellò il primo che gli venne incontro. Lo stupore per un simile gesto, tanto spropositato quanto imprevisto, lasciò di stucco i tonaresi e diede il tempo al desulese di darsela a gambe. In pochi minuti la notizia del fatto di sangue fece il giro del paese e, con la bava alla bocca per il desiderio di vendetta, fu organizzata una caccia all’uomo alla quale partecipò tutta Tonara. Fortunatamente il ragazzo desulese, previdente, non era rientrato a casa, ma era andato a nascondersi in montagna. La caccia fortunatamente fu vana. Passarono diversi anni prima che un desulese mettesse piede a Tonara o che un tonarese si recasse a Desulo.

Alla festa partecipava anche chi per il resto dell’anno poco si vedeva in giro, come Franceschino Gioi, un gobbo del quale non si capiva l’età. Viveva costui come un recluso nella casa del suo padrone, Tiu Liccu, proprietario di vasti appezzamenti di terreno. Franceschino era nato servo, così almeno mi pareva da bambino, poiché null’altro ebbe a fare nella sua vita che obbedire. Colpito da una forma di poliomielite alla colonna vertebrale era costretto a camminare piegato completamente in avanti appoggiandosi ad un bastone. Lo ricordavo attraversare la piazza dietro l’asino col basto carico di legna. Ansimante l’animale per il carico, sbuffante lui per la fatica di quel camminare a tre zampe, parevano l’uno la copia dell’altro. Impietosamente ogni volta che i due passavano i commenti non proprio benevoli si sprecavano e dai oggi dai domani alla fine Franceschino, persa la pazienza, s’era tanto irritato da non sopportare più nulla. E ogni volta che passava accanto a qualcuno, pervaso dalla rabbia, gli si avvicinava di scatto tentando di colpirlo col bastone. Il tentativo, che andava quasi sempre a vuoto, accendeva il riso nelle bocche dei presenti, ma si intuiva che in quell’ilarità non c’era cattiveria, ma solo la consapevolezza di chi sa di averla scampata bella, e il convincimento che quando la sorte ti colpisce non puoi fare altro che accettarla. Una sorta di fatalismo, spesso indispensabile per superare le tante difficoltà della vita. Lo stesso che contrassegnò l’atteggiamento della gran parte degli abitanti del paese quando si suicidò, si disse per gelosia, un uomo, certo Emilio Giorgi. Giocavo sull’uscio di casa quando udii uno sparo nella casa di fronte. Per un attimo la piazza normalmente animata piombò in un silenzio assoluto, come quando nella campagna sta per accadere qualcosa di terrificante ed ogni forma di vita sembra fermarsi. Alcune grida disperate ruppero quel silenzio, credo quelle della moglie che per prima aveva capito e si era precipitata. In molti accorsero. Anch’io, incuriosito dalle espressioni di terrore che quell’avvenimento aveva dipinto sui volti della gente, tentai di intrufolarmi tra quanti salivano la ripida scala che portava nella stanza fatale, ma Severa, subito intervenuta, mi chiuse in casa. Non dovevo vedere. Affacciato alla finestra sorvegliavo invece il via vai, sentivo il pianto, leggevo la costernazione e la rabbia nelle parole della gente, ma data l’età mi sfuggiva il senso dell’avvenimento. Dopo un primo momento di concitazione, ricordavo chiaramente, era subentrata una calma laccata che lasciava affiorare solo il sentimento dell’ineluttabilità degli eventi. Se era successo era perché doveva accadere. Poteva l’uomo contrapporsi al destino? No, e allora non restava che accettarlo, qualunque fosse.

O ancora come quando portarono a braccio in paese da una cava di pietre un uomo che, nel sistemare una mina, se l’era fatta esplodere tra le mani. Aveva perso la vista e una mano. Ma non l’udii imprecare contro la malasorte. Diceva di essere stato fortunato poiché sarebbe potuto andargli peggio. Anche se a me non sembrava un modo di consolarsi intuivo che c’era una profonda coerenza in questo atteggiamento. Coerenza con un modo di vivere semplice, senza fronzoli, senza grandi illusioni, ma con poche consolidate certezze che comunque davano alla vita un senso vero. Che significa, per esempio, che puoi partecipare alla vita sociale anche senza la vista o una mano, se sei zoppo o sciancato, se ti esprimi male o se non capisci il parlar forbito. Che si manifesta in queste circostanze con la vicinanza che la comunità ti fa sentire a sopperire, nei limiti del possibile, le tue manchevolezze. Una sorta di compensazione che misura il valore del legame sociale che tiene unita la vita dei singoli individui. La solidarietà da un lato, mi sovvenne, l’omertà dell’altro. Anche questo potente legame sociale va considerato non solo come silenzio complice, e quindi deprecabile, ma anche come la conoscenza di fatti che deve restare in quell’ambito poiché a quell’ambito appartiene ed in quell’ambito trova tutte le sue ragion d’essere.

Il trenta la festa si concludeva e la vita del paese riprendeva, ma avevo l’impressione che si fosse svuotata di contenuti tanto la gente diventava taciturna e schiva. Come se quei giorni di festa avessero esaurito tutte le energie, i discorsi, i desideri. Forse era solo quel senso di colpa che l’ignoranza ha radicato nella povera gente e che li far star male se hanno approfittato, se hanno gioito, se hanno anche per poco dimenticato che la vita deve essere dura, triste e mesta e non altrimenti felice, gioiosa, piacevole.

Quando lasciammo la casa della piazza per trasferirci nella nuova, nel bosco, per Severa sembrò dovesse iniziare un periodo di maggiore tranquillità non fosse altro perché oramai l’approvvigionamento idrico non era più necessario (non aveva mai cessato di espletare questo suo compito pur aiutata da noi ragazzi), ma in realtà non fu così. Tante volte ci s’illude che una nuova condizione porti solo vantaggi ed invece!

Intanto la nuova casa fu un cantiere aperto per molti anni. Terminato il nucleo centrale, ogni anno veniva edificata una nuova parte e si può ben immaginare quanto fosse difficile tenere pulita ed in ordine una casa in quel continuo trambusto!

La maggiore disponibilità di spazi inoltre favorì l’arrivo di numerosi ospiti che venivano per riposarsi, per godersi il bosco, il fresco, la compagnia, e quindi, essendoci la domestica, non prendevano in considerazione l’eventualità di dare una mano.

La giornata di Severa iniziava con le colazioni. Da presto per i mattinieri, sin quasi alle undici per i dormiglioni ai quali appartenevo anch’io. Tra una colazione e l’altra rassettava le camere e rifaceva i letti. Tanti! In un’estate particolarmente affollata tra familiari e ospiti si superarono le quaranta presenze. Una bella compagnia! Appena il tempo di prender fiato e la si poteva trovare nel lavatoio dove si ammucchiava ogni giorno una montagna di roba da lavare, a mano ovviamente. Se non c’erano commissioni da fare in paese, verso le dodici aiutava a preparare il pranzo. All’una apparecchiava i tre tavoli che appena bastavano, visto il numero dei commensali. Durante il pranzo serviva a tavola e quando s’era finito di mangiare faceva i piatti e sistemava la cucina. Riusciva a consumare il pasto accomodata al meglio su una piccola sedia in un angolo della sala da pranzo pronta a ogni chiamata. Con la cucina distante dalla sala, considerate le dimenticanze, le necessità sopraggiungenti, i cambi di piatti e di posate, il suo pasto in realtà lo consumava in piedi, nel continuo andirivieni.

Nelle ore pomeridiane, calde e sonnolente mentre tutti impigrivano, a lei toccava la cura di un piccolo orto che mia madre riteneva indispensabile per non sottostare alle assurde pretese del verduraio e, a suo dire, per avere prodotti freschi, coltivati senza usare antiparassitari e quindi genuini. L’orto era situato sotto la casa in uno spazio sottratto al bosco. Patate, fagiolini, lattughe, piselli, pomodori, melanzane, prezzemolo e basilico. Tanto quanto poteva bastare per gli usi familiari in quei pochi mesi estivi. A un prezzo irrisorio naturalmente, visto che le ore che Severa vi lavorava erano già conteggiate nelle quattordici giornaliere già pagate! Una volta ci divertimmo a calcolare l’effettivo costo di un cespo di lattuga e ne venne fuori, con mia madre stizzita e irritata, una cifra spropositata. Ed è ciò che normalmente accade a chi vuole “fare” in proprio, improvvisandosi un mestiere che non conosce, non mettendo in conto le ore di lavoro personali o di familiari e amici, non considerando costi come l’energia elettrica impiegata o l’uso di attrezzature precedentemente acquistate.

Per tutti gli anni a venire Severa dovette occuparsi di quel fazzoletto di terra poco produttivo, che tutto era tranne che un serio orto. Capitava frequentemente di trovarla ancora lì a sera inoltrata, mentre tutti gli altri rientrando festosi dalla passeggiata serale si apprestavano alla cena, con una zappa tra le mani ad attendere che un indeciso ed estenuante filo d’acqua proveniente dalla fossa settica, per mia madre ogni goccia d’acqua doveva essere risparmiata e utilizzata, percorresse fino in fondo i solchi nei quali erano stati piantati ortaggi o verdure, con una pazienza che solo l’incondizionato amore verso mia madre rendeva comprensibile. A me capitava talvolta di andare a farle compagnia e non potevo fare a meno di prenderla in giro. Ridendo a denti stretti si lasciava sfuggire qualche imprecazione (“… questo cazzo di filo d’acqua, l’ho detto a tua madre che così non si può…”), ma quando poi doveva rendicontare a sa meri, tutto era andato per il meglio ed il fatto che la cena fosse fredda e che subito dopo dovesse occuparsi di sistemare la cucina ancora una volta non costituiva per lei motivo di disappunto. Non si lamentava mai! Credo considerasse quella condizione come sua naturale; era quella la sua vita, non poteva immaginarne un’altra, né forse ne desiderava una diversa.

Aveva sì un sogno, ed era quello di comprare una piccola casa in città! Le sarebbe piaciuto fare i bagni in estate e partecipare a quella vita di relazione intensa e febbrile che supponeva esistesse dove c’era tanta gente. Probabilmente era un desiderio che risaliva ai tempi di quando, ragazza, faceva la domestica in città. Sosteneva che le avrebbe fatto bene per i reumatismi che l’affliggevano, ma che comunque non le impedivano di fare tutto ciò che le si chiedeva. Una piccola casa, anche solo una stanza con bagno, ma in città. Ho sempre pensato che considerasse la disponibilità della casa in città un grande segno di distinzione e che proprio per questo ci tenesse tanto. Non so con quali soldi avrebbe potuto soddisfare questo desiderio, ma lei ci sperava sempre. Una vincita al totocalcio, per esempio. Morto il marito aveva maturato il diritto a una pensione di reversibilità di qualche di migliaio di lire al mese e dai miei genitori riceveva un compenso mensile di diecimila lire (che io ricordi tale importo non è mutato nel corso di un ventennio). Eppure riusciva a risparmiare! Per la casa in città e per la vecchiaia, naturalmente. Aiutava anche economicamente la sorella maggiore che abitava in città e che con due figli aveva difficoltà nel tirare avanti. “Se il Signore ci assiste” le scriveva la sorella cittadina, “riusciremo anche quest’anno a comprare i libri per la scuola dei ragazzi”. E il Signore inviava il vaglia postale. Si era lasciata convincere ad aprire un conto corrente postale a due firme, sua e della sorella, conto che quest’ultima avrebbe utilizzato per le piccole necessità senza aver bisogno di scriverle continuamente, anche nel convincimento che un qualche risparmio la sorella ve lo depositasse. Ebbe a raccontarmi che essendola andata a trovare parlarono di quel conto corrente e la sorella le disse che aveva provveduto ad arrotondare l’importo del conto. Severa pensò, visto che vi erano depositate quattrocentosessantaseimila lire, che la sorella avesse versato la differenza per giungere alle cinquecentomila. Dal proseguo del discorso invece capì che l’arrotondamento era stato fatto verso il basso col prelievo della somma eccedente le quattrocentomila. ‒ Benedetta spendacciona! ‒ aveva esclamato. Ma cosa poteva farci? Mi disse che quel conto l’avrebbe chiuso, cosa che credo non avvenne mai. A lei in fondo non erano mai interessati i quattrini, se li desiderava era solo per poter comprare quella piccola casa in città.

Tanto frequente si era fatto questo ritornello che mi lasciai scappare, durante un mio soggiorno, che quella casa gliela avrei comprata io non appena terminati gli studi ed avessi cominciato a lavorare. Per rendere la cosa più credibile facemmo un po’ di conti. Tanto poteva costare in una certa zona della città, a lei andava bene come zona? Tanto aveva da parte, un mutuo che avrebbe pagato col mio aiuto non glielo avrebbero negato, la parte in contante l’avrei anticipata per intero io. Senza che c’entrasse nulla la sorella però, troppo vorace. E quei conti li abbiamo rifatti tante volte perché il prezzo delle case variava o perché in qualche zona non si trovava più nulla da compare. Lei sperava anche in un aumento del suo stipendio da parte dei miei genitori. Avrebbe potuto così risparmiare qualcosa di più! Ma l’aumento non arrivò mai! Non solo! Quando, a causa di problemi cardiaci, i miei decisero che non ce la faceva più e le dissero che non avevano più bisogno di lei, timidamente avanzò l’ipotesi, non la richiesta per carità, di una liquidazione. Dopo più di quaranta anni di servizio! Eravamo nel 1980. Lei pensava a cinquecentomila lire quale decorosa buonuscita. Non sapeva quanto in realtà potesse chiedere o pretendere. Viveva quell’idea più come un segno di riconoscenza (e non poteva essere che quello vista l’esiguità della cifra) che come un effettivo credito vantato. Trovò un netto rifiuto in mio padre e nessun sostegno in mia madre che le disse che non si sarebbe mai aspettato un comportamento del genere proprio nei confronti di chi l’aveva tolta dalla strada. Che si accontentasse dell’affetto che aveva ricevuto dalla famiglia e della considerazione nella quale era stata tenuta. Ci rimase male e per qualche tempo non si fece più vedere. So per certo che la sorella la sobillò a rivolgersi a un avvocato per rivendicare giusti diritti, ma lei questa volta non si fece convincere. Mai e poi mai avrebbe fatto patire un simile affronto a mia madre. Avrei dovuto accontentarla io, facendole magari credere che a soddisfare la sua aspettativa fossero stati i miei genitori! L’avrei fatta felice restituendole in minima parte quanto a me aveva dato. Ma me ne mancò la prontezza. E sì che mi ero contrapposto a mio padre, che mi aveva accusato di aver suggerito quella richiesta, sostenendo con vigore che Severa aveva il diritto a una liquidazione ben più consistente! E la discussione fu tanto aspra che arrivai, quella sola volta nella mia vita, a dare dello scemo a mio padre. Ma non ci fu nulla da fare. I miei genitori tennero un atteggiamento sostenuto e fu lei a piegare, come sempre, il capo. Dopo un lungo periodo di volontario isolamento, credo un anno e mezzo, si presentò timidamente a casa un pomeriggio con la scusa di una visita alle mie figlie. Fu accolta come se non fosse mai mancata, tutti si comportarono come se stesse tornando dal paese dopo aver fatto una commissione. Avvertivamo che non le riusciva di vivere distante dalla nostra famiglia, ma nessuno glielo fece fortunatamente pesare. D’altro canto era il suo mondo, con noi aveva trascorso la sua intera esistenza e la scelta di vita affettiva che da giovane aveva compiuto la obbligava a ricercare e ritrovare quei rapporti. Il non stare con noi era una morte anticipata e lei voleva ancora vivere e godere di ciò che la vita poteva ancora offrirle. Andò a salutare mia madre ed anche mio padre, che le disse che poteva venire, e sarebbe stata considerata ospite, quando voleva. Nessuno le avrebbe chiesto di fare nulla perché alla sua età e dopo tanti anni di lavoro meritava di essere servita. Nessun cenno fu fatto alla liquidazione, dimenticata come si dimentica un discorso indecoroso e inopportuno. Lei, felice, cancellò nella sua mente e nel suo cuore il torto e riprese a fare, da ospite, tutto ciò che da domestica faceva prima di andare via.

Fortunatamente per lei, la frequentazione estiva di Belvì da parte dei componenti della famiglia e dei loro ospiti venne via via scemando, un po’ per le differenti scelte di vacanza, un po’ perché le mogli, come quasi sempre accade, allontanarono i mariti dalla famiglia originaria e da quella casa. Fatto sta che a Belvì si cominciò ad andare sempre meno e le residue forze di Severa furono sufficienti a soddisfare le esigenze dei pochi superstiti.

Vi fu un successivo periodo nel quale i miei genitori vissero isolati nella casa nel bosco, quasi reclusi volontari (non ha mai saputo il perché) per lunga parte dell’anno, e a Severa era permesso soltanto di portare il giornale ed il pane fresco. Per lei quello fu un periodo difficile. Sbalestrata nei suoi riferimenti affettivi fondamentali, non capiva questa forzata separazione da mia madre e anch’io la vedevo raramente a causa dei miei impegni di lavoro, finì per trascurarsi, mangiare poco e irregolarmente, ed eccedere nel bere. Se le era sempre piaciuto completare il pasto con un bicchiere di vino rosso, diceva che le schiariva la voce, mai ne aveva approfittato, ma in quel periodo fini per sostituire il pasto col vino. Una mattina di un febbraio freddo e pungente fu trovata dinanzi alla sua casa quasi assiderata e morente. Il suo cuore aveva deciso di non seguirla in questa sua vita sregolata. La solidarietà che nei paesi vige e affratella mobilitò un rapido soccorso e fu accompagnata all’ospedale più vicino. Non fu difficile, essendo la prima volta, farle superare la crisi cardiaca che l’aveva colpita. Si riprese in qualche settimana, ma fu ben chiaro come oramai non potesse più vivere da sola. Ingenuamente mi aspettavo che mia madre le offrisse ospitalità e assistenza. Severa non era inabile, anzi poteva dare anche una mano, come aveva fatto sempre. Bastava controllarla, darle una regola di vita più attenta alle mutate condizioni di salute e badare che assumesse le medicine che le avevano prescritto senza troppi capricci (chi poche ne ha usato non le prende volentieri e ritiene di poterne fare a meno). Così non fu. Andò a stare con la sorella, quella delle lettere e del conto corrente in comune, che oramai aveva una casa comoda in città e che la prese perché, per una serie di meccanismi di rivalutazione, la pensione di Severa compresa quella di reversibilità del marito, in un magro bilancio familiare, certamente faceva comodo.

Giunta in città Severa cominciò prima a non vivere, poi a morire lentamente. Non vedeva nessuno perché nessuno andava a trovarla, non usciva perché non si trovava a girare in città e poi non sapeva dove andare, non parlava che con la sorella ed congiunti di lei. In un primo periodo non aveva a disposizione neanche il telefono! Mia madre le aveva concesso di andarla a trovare una volta ogni tanto, ma siccome nessuno l’accompagnava perdeva anche questa opportunità. Con i miei fratelli non era andata mai molto d’accordo per la preferenza accordatami. A casa mia sarebbe voluta venire, ma la frenava l’ostracismo di mia moglie che non le aveva perdonato di essere stata tante volte mia complice, senza capire che lei per me avrebbe fatto carte false. Se mi capitava qualche volta di raccontarle, quando andavo a trovarla, che qualcuno mi ostacolava, nella professione o in altri campi, lei subito ideava un piano per l’eliminazione fisica di chi mi si opponeva.

‒ Lo vado a trovare con una scusa, e ne posso trovare tante, e gli pianto una coltellata nella pancia. Così impara! Tanto ‒ diceva ‒ sono già vecchia e anche se mi danno l’ergastolo mi fanno solo un piacere. Poi mi debbono mantenere senza lavorare e così mi riposo, finalmente!

Veniva saltuariamente a trovarmi nello studio, ma si tratteneva poco perché aveva sempre timore di disturbarmi, di togliermi tempo, di approfittare di me. Una volta prendemmo il discorso della casa che le avevo promesso. Le dissi che avrei veramente voluto soddisfare questo suo desiderio, ma le circostanze, le necessità della famiglia, avevano preso il sopravvento, e che…. Mi impedì di concludere quella sciocca autodifesa e con un sorriso mi fece intendere che in realtà quella casa non le era interessata più di tanto. Sì, forse tanti anni prima le sarebbe piaciuto, ma ora a cosa le poteva servire. Era però contenta che io ci pensassi ancora e mi rammaricassi di non averla potuta accontentare.

Fiju meu (Figlio mio) ‒ disse ‒ deo seo cuntenta poite tenese tottu su chi olese (io sono contenta poiché tu hai tutto ciò che vuoi). – Po me non bojo nudda (Per me non voglio nulla) -.

Ad affermare che l’amore è tale quando si desidera la felicità dell’altro, non la propria. E lei ne era stato un esempio. Ma quanto è difficile spogliarsi dei propri desideri per soddisfare solamente quelli degli altri!

Negli ultimi tempi della sua vita mi premurai di restituirle un poco, troppo poco in verità, di ciò che lei mi aveva dato in tanti anni. Solo oggi mi rendo conto di quanto veramente poco sia stato e mi domando ancora incredulo com’è possibile che la corsa della vita ti porti tanto lontano da ciò che veramente vale. La mia maggiore preoccupazione fu quella di tenerla in buona salute provvedendo a frequenti controlli medici e seguendola negli ormai annuali ricoveri. Durante uno degli ultimi ricoveri nel suo reparto vi fu una moria impressionante di degenti e, anche se stava per essere dimessa, ebbe paura di morire. Me lo confidò con angoscia. La tranquillizzai dicendole che se aveva superato quel fine settimana non doveva temere più nulla, come era successo a Belvì circa trent’anni prima. Si era trattato di un accadimento a dir poco curioso che aveva coinvolto l’intero paese. Ai primi di febbraio di quell’anno una vecchina aveva sognato una sua amica, da poco defunta e questa le aveva annunciato che in quell’anno sarebbero morti venticinque belviesi, cifra incredibile per un paese che, con mestizia, celebrava due o tre funerali l’anno. Quando la vecchia raccontò il sogno nessuno le dette credito, ma a maggio i morti erano già nove. Coincidenze, fatalità, un paio d’incidenti stradali, un fatto di sangue che coinvolse un ragazzo, che morì accoltellato per dividere due ubriachi che erano passati ai fatti per motivi di gelosia. Se fino ad allora nessuno aveva preso in seria considerazione il sogno della vecchina, da quel momento la premonizione incominciò a fare paura. In giugno anche la vecchina che aveva fatto il sogno morì. E con lei facevano dieci. A settembre il conto era di sedici. In paese non si parlava d’altro. Si stilavano gli elenchi dei probabili morituri. In testa i vecchi, poi gli ammalati gravi, ancora quelli che facevano un mestiere pericoloso. Si calcolava anche una quota d’imprevisti che potevano coinvolgere chiunque. Per la strada tutti si guardavano con circospezione, ciascuno tentava di capire se apparteneva alla schiera dei prossimi defunti o di coloro che avrebbero superato l’anno. A novembre i morti erano diventati ventidue. Oramai si aspettava solo di sapere chi sarebbero stati gli ultimi tre. Morì un vecchio, ai primi di dicembre, e un belviese emigrato al Nord, del quale pochi si ricordavano, poco prima di Natale. Oramai ne mancava solo uno. Era il giorno di Natale e Severa si sentì male. Una forte febbre l’assalì, aveva nausea, si sentiva debole. Il fatto che ci fosse in giro l’influenza non la confortava. In mancanza del medico pensò che la cosa migliore fosse prendere un’aspirina e starsene a letto. Mai l’avesse fatto, quell’aspirina, poi scoperse che era avariata perché scaduta, la prostrò sino a sfinirla. D’altro canto il destino aspettava un’altra morte e lei era in quel momento la più titolata. Con Severa in quelle condizioni, probabile venticinquesima defunta, tutti gli altri belviesi tirarono un sospiro di sollievo. Per gli ultimi giorni di quell’anno erano certi che non sarebbero morti, anche se si fossero buttati giù dal ponte della ferrovia. Severa era disperata, incominciava a credere di essere lei la predestinata, ma il suo attaccamento alla vita ebbe il sopravvento. Forse la morte venne a visitarla, ma trovandola tanto restia volse altrove il suo sguardo. Il ventinove dicembre morì in Piemonte un bimbo belviese figlio di emigrati, e quella morte così irriguardosa, vista l’età del soggetto, chiuse con sollievo per tutti e per la felicità di Severa, quell’anno maledetto. Il ricordo di quell’episodio le fece tornare il sorriso e svanire l’angoscia che l’attanagliava. Fu dimessa ristabilita un paio di giorni dopo.

Il rammarico è sempre stato quello di non averle dedicato un po’ di tempo in più, da trascorrere, come anni prima capitava, in chiacchiere frizzanti, in considerazioni seriose, in commenti salaci. In sua compagnia per darle e condividere qualche momento di gaiezza. Il tempo che avrei potuto dedicare a lei invece lo utilizzare a inseguire qualcosa che non valeva, che mi appagava solo fugacemente, che non costruiva nulla. Inoltre succedeva che quando andavo a visitarla a casa della sorella, l’ambiente non ispirava né me né lei, finivo per trattenermi solo pochi minuti, e rimandavamo a un’occasione successiva quanto avremmo potuto e voluto dirci, ben sapendo che questo momento non ci sarebbe mai stato. Ciononostante il rapporto, anche in quelle condizioni, era appagante e gioioso. Mi confidava della difficoltà che aveva con la sorella che l’aveva presa in casa solo per la sua pensione, pretesa per intero. Sottovoce, accertandosi bene che non la potesse sentire, diceva che era gretta, poco intelligente, un poco avida, ma subito dopo correggeva il tiro, la sua natura era buona, affermando con un sospiro di rassegnazione che la colpa non era sua. La vita l’aveva confinata in quella situazione e bisognava capirla, anche se… e allungava l’elenco degli aggettivi negativi. Ma nessuna di quelle chiacchiere aveva un reale spessore, perché Severa nella sua vita non ha mai voluto male a nessuno, anche se di torti ne aveva subiti tanti. Si poteva ben dire di lei che non avrebbe potuto far del male a una mosca. E se a parole aveva più d’una volta rivoltato il mondo ed eliminato tanti loschi individui, in quel novero una volta ci mise anche mio padre, nei fatti era un pezzo di pane che aspettava soltanto di essere mangiato.

Una volta mio fratello poco più grande di me, io avevo una dozzina d’anni, la fece imbestialire schizzandola con un getto d’acqua mentre innaffiava l’orto. Già quell’incombenza non la rendeva felice e il vedersi irrisa in quel modo aumentava il disagio. Dopo aver più volte chiesto a mio fratello che la smettesse, perse la luce degli occhi e la ragione e si lanciò verso di lui per afferrarlo e bastonarlo di santa ragione. Lui fuggì e lei lo rincorse per il bosco a perdifiato. La freschezza e l’agilità ebbero la meglio e mio fratello si dileguò tra i castagni e la macchia. Lei si fermò col cuore che le scoppiava in gola e pianse alzando al cielo atroci urla di dolore e di rabbia. Rimase in quello stato per qualche decina di minuti e quando si calmò era sfinita, senza più parole. Io che avevo assistito alla scena mi avvicinai e tentai di consolarla, ma neanche le parole più affettuose riuscirono a toglierle dal viso la smorfia che vi era disegnata. Passò l’intero pomeriggio nel silenzio più assoluto. Mio fratello, certo che Severa avrebbe raccontato tutto a mia madre, temeva la punizione di mio padre. All’ora di cena si rifece vivo ormai rassegnato a una punizione esemplare, ma lo sguardo tranquillo di mia madre lo rasserenò. Severa non aveva fatto cenno dell’accaduto a mia madre perché in fondo le dispiaceva vederlo duramente castigato. Non sapeva tenere rancore ed è per ciò che dopo qualche giorno la sua naturale gioia prese il sopravvento e dimenticò quel brutto episodio. Era fatta così e credo io abbia assimilato questo lato del suo carattere.

Negli ultimi giorni della sua vita fu ricoverata in ospedale per violenti dolori all’addome. I medici (ma erano medici?) diagnosticarono una peritonite, ma non intervennero per le gravi condizioni cardiache (Severa soffriva da anni di cuore). Non rinunciarono però all’idea di un intervento, che fa fare carriera, e chiesero al parente più prossimo, la sorella, il permesso di operare non appena fosse stato possibile. Saputo del suo ricovero mi precipitai in ospedale e mi resi conto che si trattava di un infarto intestinale, secondario ad una trombosi a partenza cardiaca, che aveva prodotto anche un danno cerebrale evidente. Le spiegai cosa le era successo e commentando il madornale errore ridemmo di cuore insieme. Anche perché, avendole suggerito di non farsi assolutamente operare, fece un gesto poco elegante, ma molto espressivo per indicare il suo gradimento a quella inutile sofferenza. Le dissi anche che se era giunta l’ora di morire che morisse di suo e non per mano altrui. Lei fu d’accordo e aggiunse, biascicando le parole per la lieve emiparesi, che “ai quei cazzi di medici” non avrebbe permesso di toccarla, e che avrebbe deciso lei quando passare a miglior vita. Fu l’ultima volta che la vidi. Dimessa qualche giorno dopo, morì sotto i ferri una settimana più tardi operata d’urgenza per la stessa sospetta peritonite del tutto inesistente.

Il mio dolore fu mitigato dalla considerazione che se doveva continuare a vivere con quei dolori e in quello stato era meglio che se ne fosse andata.

Al funerale tutti vennero a porgermi le condoglianze come se fossi io il parente più prossimo. Sua sorella, mai gentile nei miei confronti, avvicinatasi in presenza di mia madre, fingendo un dolore che non provava, mi disse che era dispiaciuta per me perché avevo perso la mia seconda madre. Aveva voluto offendere mia madre? Oppure ferire me? In fondo io non mi sentivo infelice perché sapevo che anche lei, come mia nonna, sarebbe stata lì ad aspettarmi quando avessi abbandonato questa vita. E se il trapasso sarà tormentoso si adopereranno per facilitarlo.

Da tempo ero fermamente convinto che la morte non fosse altro che una trasformazione di stato, un cambiamento di forma che non modifica in nessun modo ciò che siamo nel nostro profondo, cioè uno spirito che possiede una propria dimensione e che, diverso da tutti gli altri, vive per l’eternità in forme e aggregati diversi. Questo spirito, abbandonato l’ingombro del corpo, pur libero di spostarsi in tutti gli universi possibili e pur potendo accedere alla conoscenza universale, non ha vita facile in nessuna nuova dimensione. Attratto dal ricordo della vita precedente, ha paura del passaggio ulteriore che lo attende, forse un’altra morte, alla quale va incontro dopo un’altra fase di maturazione (un’altra vita in altra forma?). C’è sempre poi un successivo passaggio, in un processo circolare che forse non finisce mai. E questo percorso ha come perimetro, questo il mio convincimento, il personale desiderio di vita, la sete di conoscenza, la capacità e la volontà di rinnovarsi totalmente. Quante vite, dove, quando, come e con chi viverle, siamo in fondo noi a deciderlo!

Rivolsi lo sguardo verso zia Tana. Silenziosa, immersa nella sua dimensione senza tempo, contemplava i tizzoni accesi. I suoi rapporti con Severa non erano stati mai idilliaci. Si era creata una rivalità a causa della fiducia che i miei genitori avevano concesso a Severa, la domestica, che aveva la custodia della casa nel bosco e altre responsabilità che invece, questo pensava zia Tana, sarebbero spettate a lei stretta parente! Facevano finta di andare d’accordo per non contrariare mia madre, ma sotto sotto covavano una reciproca antipatia e non si lasciavano sfuggire nessuna occasione per punzecchiarsi.

Una volta mentre si parlava del più e del meno davanti al caminetto, zia Tana era venuta a farci visita, Severa ebbe a utilizzare nel suo discorso un modo di dire tipico dei luoghi, un “Poneddi Peppi”, che significa mettila come vuoi, tanto io rimango del mio parere. Zia Tana, che un Peppe nella sua giovinezza l’aveva conosciuto, pensando a una cattiveria le replicò dicendole: ‒ E tue poneddi Franciscu. Ad intendere che un Francesco c’era stato nei trascorsi di Severa. Quando zia Tana fu andata via chiesi a Severa chi fosse il Peppe tirato in ballo, guardandomi bene, ovviamente, dal chiedere informazioni su Francesco. Severa rise di cuore affermando di non averlo fatto apposta, ma visto che zia Tana se l’era presa voleva dire che aveva colto nel segno e se fino ad allora aveva avuto un dubbio da quel momento non ce l’aveva più.

Solo quando, collocata a riposo Severa per i suoi problemi di salute, i miei genitori affidarono la custodia della casa nel bosco a zia Tana i loro rapporti migliorarono, anche se continuarono a frequentarsi sporadicamente. Se fosse stato per loro non credo si sarebbero neanche conosciute, tanto diversi i caratteri e la concezione di vita. Severa aveva avuto bisogno e aveva trovato in mia madre il suo riferimento certo, zia Tana aveva preferito non rinunciare alla sua indipendenza. Per questo motivo credo non abbia mai voluto sposarsi. Severa, per la povertà delle sue origini, aveva poca storia alle sue spalle e, palesando quel tipico atteggiamento di chi ha poco interiorizzato i valori della tradizione, propendeva per la modernità. Zia Tana aveva sempre portato il costume, con la gonna rossa di orbace, il camicione bianco di lino ricamato a filè, il corpetto bordato di seta, il grembiule, lo scialle nero con le frange a coprire il capo. Severa possedeva solo la piccola casa avita che saltuariamente abitava. A zia Tana i genitori avevano lasciato invece alcune proprietà che le avevano assicurato una piccola rendita, permettendole di sopravvivere senza dover andare a lesinare qualche giornata di lavoro a destra e a manca.

Zia Tana si dedicava personalmente alla conduzione e alla coltivazione di quelle proprietà perché non sarebbe stato possibile altrimenti ricavarne un guadagno. Capitava che ci conducesse con lei per dare una mano, ma non frequentemente poiché non amava avere bambini tra i piedi, specie in quei frangenti. Aveva un piccolo orto sotto la stazione dove ogni anno piantava due filari di fagiolini, uno di pomodori, uno di piselli, uno di cipolle, e ai margini le zucchine che con i loro tralci finivano sempre nella siepe. Da quel piccolo orto si approvvigionava per le sue strette necessità. Era quanto le bastava, perché coltivarne di più? Di quel piccolo fazzoletto di terra scura, ordinato e curato, come di altri orti lungo il fondovalle, non ho mai dimenticato le fragranze inconfondibili. L’odore selvatico del pomodoro e la sua polpa farinosa, il dolce dei piselli e quel rumore quasi metallico dell’aprire i baccelli, l’acre nel naso della cipolla fresca. Il profumo della fioritura dei fagioli come l’odore della terra umida mescolata allo stallatico di bue, che zia Tana si faceva dare da un suo mezzo parente, proprietario di un giogo di buoi che affittava per i lavori nei campi. In quel periodo non v’erano macchine a sollevare dalla fatica chi lavorava in campagna, tutto si faceva con le braccia sopportando sforzi inauditi per i nostri giorni. Lunghe giornate trascorse nella cura di un bosco, di un castagneto, di un noccioleto, dell’orto, per un raccolto spesso scarso che doveva essere magari diviso con il proprietario del terreno. Un’economia estremamente povera vissuta senza denaro, nella quale ogni occasione andava sfruttata, in cui non esisteva il concetto di qualifica professionale e tutti cercavano di imparare a fare tutto per allargare in questo modo la propria offerta. Esisteva invece una mobilità incredibile. Si poteva passare dall’attività di bracciante agricolo in estate a quella del piccolo commercio in autunno, a quella d’idraulico o elettricista in inverno. A Belvì, come d’altronde in molti paesi del Sud nei quali mancava una tradizione di lavoro organizzato, ciascuno era autorizzato ad attribuirsi ogni competenza che credeva, anche se questo portava alcuni inconvenienti. Come quello che capitò a un maistru de muru (un mastro muratore), tale Musu, che nel costruire una nuova casa a ridosso di un costone, decise di optare per l’uso dei pilastri di cemento armato che aveva visto nei palazzi in città al posto dei soliti muri portanti di pietra. Innovare era sinonimo di bravura e lui voleva anticipare i colleghi nell’uso di quella tecnica. La costruzione della casa era seguita da molti curiosi che, come sempre accade nei confronti del nuovo, erano scettici. Il maistru de muru, una volta portato a termine dagli sterratori lo scasso nel costone della montagna, disegnò e poi costruì in modo tradizionale fondamenta e muro di sostegno. Appena appoggiati alle fondamenta eresse una decina di pilastri di cemento armato collegati tra di loro da travi sulle quali gettò il primo solaio che copriva il locale destinato allo scantinato. Proseguì successivamente con la costruzione del piano terra, a livello della strada statale, e del primo piano.

La casa già finita nell’intera struttura portante, in una notte particolarmente piovosa che aveva gonfiato il terreno di riporto a monte della costruzione, con un frastuono sinistro crollò. L’intero paese si risvegliò senza comprendere cosa fosse successo e solo alle prime luci dell’alba si capì quanto era accaduto. Il maistru de muru subito accorso effettuò un sopralluogo che durò l’intera mattinata. Osservava, misurava, rifletteva, saliva a monte, scendeva a valle, con una calma serafica, senza proferire parola. Alla fine, a voce alta suppose di non aver calcolato bene i carichi. Era per lui l’unica ipotesi possibile. Un suo pari grado, un’altro maistru de muro suo concorrente, con malizia, fece circolare la voce che i pilastri di cemento armato a poco servono se non hanno i plinti, cioè la base di sostegno sotto terra, plinti che in quell’occasione non erano stati costruiti. Forse il Musu non lo sapeva! Da quel giorno il Musu divenne il signor Musu e dovette cambiare mestiere anche se era ovvio che, escluso il cemento armato, la sua competenza era ancora quella che aveva prima dell’incidente. Nella stima del popolo chi commetteva anche un solo errore si giocava tutta la credibilità faticosamente conquistata. Ma tant’è. Quella era la regola e occorreva non dimenticarla.

Quanto accaduto era stato evidentemente un caso limite e non inficiava il fatto che comunque ciascun belviese acquisisse nel tempo una competenza diffusa tale da permettere loro di costruirsi la casa con le proprie mani. Pezzo a pezzo, un giorno una cosa, la settimana o un mese dopo un’altra. In funzione della possibilità di acquisto del materiale di costruzione e del tempo a disposizione dopo gli altri lavori che davano da vivere. Vi era però un momento nella costruzione della casa, era il giorno in cui si gettava il solaio, che non poteva essere suddiviso poiché era un lavoro che occorreva concludere in giornata per far diventare il solaio un blocco unico e renderlo così compatto ed impermeabile. La stagione più indicata era l’estate perché una pioggia improvvisa avrebbe vanificato il lavoro e fatto perdere tutto il materiale. Si programmava per tempo anche per poter disporre di ogni paia di braccia disponibili. Chi non aveva nulla di più urgente da fare dava una mano. Anche coloro che erano in vacanza. S’iniziava la mattina molto presto avendo già posto in opera nei giorni precedenti travetti e pignatte. A un bambino il compito iniziale di bagnarli abbondantemente con una pompa mentre i grandi impastavano il cemento con la sabbia. Una catena umana faceva arrivare l’impasto ai muratori che lo distendevano, lo infilavano in ogni fessura, lo compattavano, lo lisciavano. Tutto si svolgeva freneticamente perché la gettata doveva essere unica e il cemento non doveva solidificarsi in fasi successive. Il vociare era incessante, inizialmente allegro via via che la fatica si faceva sentire e il lavoro volgeva alla fine, diveniva imperioso, irritato, urlante per esplodere da ultimo in un grido liberatorio: ‒ Accabbau (finito)!

Era volata una mattinata intera e nessuno si era accorto del tempo trascorso, tanta era stata la tensione. Tensione che si scaricava, finito il lavoro, con scherzi, il gavettone non poteva mancare considerato il caldo, con schiamazzi, con urla, con prove di forza, sollevare una grossa pietra o un paio di compagni assieme, con gare d’abilità come la corsa, i salti, ma soprattutto con s’istrumpa, tappa obbligata del confronto e della competizione maschile. S’istrumpa è una vera e propria arte marziale, ben codificata e con precise regole, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. I due contendenti, uno di fronte all’altro afferrati reciprocamente per le braccia, debbono tentare di far cadere l’avversario e tenerlo per qualche secondo con le spalle a terra. Non è permesso nessun genere di colpo né con le mani, né coi piedi. Si deve giocare d’astuzia, impiegando destrezza e velocità, per far perdere l’equilibrio all’avversario e metterlo spalle a terra. Non è importante la forza e per questo partecipavano anche i meno giovani che facevano dell’esperienza la loro carta vincente. La sfida procedeva, tutti partecipavano, per eliminazione diretta. Chi vinceva un confronto affrontava lo sfidante successivo e così sino all’ultimo combattimento che di solito veniva interrotto dagli spruzzi d’acqua che chi si era preso il compito di bagnare la soletta appena gettata rivolgeva verso i duellanti e gli spettatori. A quel punto l’assembramento si scioglieva, ci si lavava all’aperto al vivo getto di una pompa e poi ci si sedeva per il pranzo che le donne erano andate preparando nell’arco dell’intera mattinata e che veniva offerto a tutti coloro che avevano dato una mano d’aiuto. Si stava a tavola, visto che la giornata di lavoro era conclusa, sino al tardo pomeriggio. Soddisfatti, sereni, gioiosi, si mangiava e beveva rumorosamente, intonando di tanto in tanto un canto in limba, unu mottettu, un coro. Una festa a significare il più sentito augurio per quella erigenda casa che avrebbe ospitato una nuova famiglia tramandando così nel tempo la vita del paese.

Zia Tana possedeva anche due ciliegeti vicini al paese e dai quali ricavava diversi quintali di frutti che vendeva. Raccoglieva lei stessa le ciliegie arrampicandosi fino alla cima dell’albero aiutata in questo dal suo scarso peso e da un’agilità invidiabile. A settanta anni suonati ancora continuava a salire sugli alberi, incurante del pericolo, più che mai convinta che ciascuno dovesse provvedere personalmente alla bisogna, pena la perdita del guadagno. Qualche volta partecipavamo anche noi nipoti alla raccolta, ma la scarsa esperienza e la golosità, finivamo per mangiare la metà delle ciliegie raccolte, rendeva scarsamente produttivo il nostro apporto.

Il raccolto veniva venduto ogni pomeriggio in piazza principale, sa prazza manna (la piazza grande) sulla quale si affacciava la nostra casa e quella di zia Tana. Arrivava sistemato in cassette di legno foderate di carta gialla da pasta a dorso d’asino o sui carri a buoi. Ognuno collocava il suo prodotto in un cantuccio e attendeva i compratori che venivano dalla città con grossi camion. Probabilmente erano dei padroncini che facevano da intermediari tra grossisti e produttori. Acquistavano per pochi soldi le ciliegie e poi sicuramente le rivendevano a un prezzo notevolmente maggiore. Le contrattazioni erano lunghe ed estenuanti e si concludevano quasi sempre a danno dei produttori che non potevano non vendere un prodotto così deteriorabile. A tenerlo solo un giorno in casa nessuno lo avrebbe più comprato. Era un ricatto al quale i belviesi finivano per sottostare e pur bambino mi domandavo come mai non fossero in grado, organizzandosi tutti assieme, di evitare questa imposizione che di fatto impediva loro quel guadagno che li avrebbe ripagati almeno della fatica impiegata a raccogliere le ciliegie (se il lavoro fosse stato affidato a terzi il ricavato sarebbe stato tanto modesto da non coprire il costo dei lavoranti). Sarebbe bastato affittare un camion, caricare l’intero raccolto e andare a venderlo il mattino seguente ai mercati generali in città. Non mi sembrava un’impresa tanto complicata e ogni anno trovavo sempre più insopportabile quel ricatto! Solo da grande ebbi a comprendere come la diffidenza atavica, la difficoltà a fare le cose aiutandosi vicendevolmente, a organizzarsi, a dividersi compiti e guadagni, a lavorare assieme, aveva da sempre impedito all’intera Barbagia di svilupparsi e di crescere. Per non parlare dell’invidia degli ignavi, di coloro che non sanno fare nulla e non vorrebbero che altri facessero. Un inno all’immobilità assoluta, all’indolenza. Un costume che ancora permeava la mente e cuore, come una fodera, di molta della gente della Barbagia.

A noi ragazzini era permesso, terminata la raccolta, di entrare nei ciliegeti, di chiunque fossero, per far man bassa di pabasse, cioè delle ciliegie che cadute dall’albero durante la raccolta erano appassite sotto i raggi cocenti del sole. Con una scatola di scarpe foderata di felci fresche si girava per i ciliegeti a raccattare quelle più secche e più dolci, che originavano da una varietà di ciliegie estremamente zuccherine e tanto succose da non poter essere raccolte e vendute poiché si ammaccavano e si guastavano subito. Ogni bambino in quei giorni girava per le strade del paese con sottobraccio la scatola piena che mostrava con soddisfazione. A chi lo chiedeva non era negato l’assaggio, ma nessuna informazione veniva fornita circa il luogo di raccolta. Anzi di solito le indicazioni erano false per evitare che altri si approvvigionassero alla stessa fonte. Un altro di quei comportamenti che avevano da sempre reso impossibile ogni forma di cooperazione

La consuetudine di permettere l’ingresso nei propri terreni a raccolta finita era una vecchia usanza consolidatasi nel tempo in essere finita la raccolta delle nocciole e soprattutto delle castagne. Chi non possedeva terreni era autorizzato ad affustigare (cioè a frugare tra il fogliame con un sottile bastoncino, su fuste) in tutti i terreni per raccogliere quanto era sfuggito durante la raccolta ai legittimi proprietari. La fatica non era poca, ma così anche i più poveri potevano portare a casa un sacchetto di nocciole o di castagne, da barattare, da vendere, da consumare in famiglia.

Tra le sue proprietà zia Tana aveva anche un noccioleto piuttosto esteso qualche chilometro a valle del paese lungo il percorso della ferrovia. Il chiuso era un declive pendio affacciato su un fiumiciattolo dalle acque cristalline che a monte si slargava in alcune ampie conche, piccole piscine, nelle quali si poteva fare il bagno. Erano i luoghi, quando io avevo due d’anni, dove la mia famiglia si recava nella buona stagione per fare il bucato. Per il trasferimento dal paese a Occili, distante circa cinque chilometri, l’organizzazione prevedeva che i fratelli più grandi portassero sulle spalle i più piccoli, Severa la cesta del bucato, mia madre il cesto con la colazione, mentre a mio padre spettava la guida della comitiva. Si partiva la mattina presto e si rientrava al tramonto. Una giornata che noi piccoli passavamo a fare il bagno, a raccogliere more, ad inseguire lucertole, ad ammirare, oh meraviglia, qualche piccolo pesce. Una giornata, la ricordavo così, serena, gioiosa, felice, lieve, di quella levità che appartiene solo a chi aspetta fiducioso il futuro, desidera vivere la vita e non teme la morte.

All’età di dieci anni partecipai all’intera raccolta delle nocciole in quel terreno ed il ricordo è nitido perché fra le aiutanti ve ne era una che suscitava in me una particolare attrazione. Lei, già ventenne, donna fatta, si era resa conto della mia curiosità e divertita, la stuzzicava permettendomi, sotto forma di gioco, sfioramenti e contatti che mi eccitavano e stordivano. Aveva due grandi tette e non le dispiaceva che vi appoggiassi il capo con la scusa di dormire, o che le guardassi le gambe quando chinata davanti a me sul pendio raccoglieva le nocciole. Alzarmi la mattina presto per ritrovarmi in piazza con il resto della compagnia e avviarmi verso il noccioleto, per me dormiglione, era diventato un piacere. Durante la giornata di lavoro ero particolarmente disponibile, pronto a ogni chiamata di mia zia o degli altri lavoranti, oltre che della signorina in questione, senza che ciò mi pesasse. Capitò un giorno di andare a riempire la brocca alla sorgente vicina con lei. Da soli. Per arrivare alla sorgente occorreva salire una ripida china e lei mi prese per mano. Ero eccitato e titubante. Quella lunga salita di solito faticosa, con la sua mano nella mia, mi sembrò una discesa troppo breve. Arrivati alla fonte sistemammo la brocca affinché il sottile filo d’acqua che sgorgava da un vecchio tubo arrugginito, inserito in un muro a secco, la riempisse. Avevamo il tempo per due chiacchiere e fu lei a parlare. Mi chiese senza preamboli se mi fosse simpatica. Io risposi con trepidazione che certamente godeva della mia simpatia e posi la domanda all’inverso. Disse che ero un bel ragazzino, che la incuriosivo, che le piacevo insomma. Io mi resi conto che a quel punto avrei dovuto fare qualche cosa, ma non sapevo cosa. Nulla conoscevo delle effusioni amorose né ritenevo l’abbraccio applicabile in quel contesto. Avevo covato, e in quel momento emergeva prepotente, il desiderio di una vicinanza fisica, scaturita dalla constatazione che quando lei si faceva vicina mi sentivo inebriato, stordito. Ma non avevo idea di come a ciò si arrivasse e in che modo si potesse realizzare. Toccarla, questo sì, lo volevo. E anche guardarla bene in ogni sua parte, anche questo lo volevo. Ma neanche lontanamente mi passava per la mente che per toccarla avrei dovuto allungare le mani o per guardarla chiedere di farmi vedere. Tra me e lei c’era il muro invalicabile della totale inesperienza. Lei ovviamente sapeva ma forse, vista la mia verde età, non aveva il coraggio di prendere l’iniziativa, per non approfittarne! Se io avessi dimostrato di essere minimamente orientato allora non avrebbe avuto quella remora. Avessi in quel momento ragionato come un bambino! Che prende senza porsi nessun problema e fa ciò che gli piace. Invece supponevo, pensando come un grande, che ci fosse bisogno di qualcosa di particolare perché mi potessi avvicinare a lei e non sapendo peraltro di cosa si trattasse rimanevo lì come uno scemo. Intanto la brocca si riempiva e non accadeva nulla. Nessuno dei due parlava più anche perché in quel frangente ogni discorso era inutile. Avevo in testa una terribile confusione e mi sentivo irritato per l’occasione che stavo buttando al vento. La brocca ormai piena mi tolse dall’imbarazzo. Riprendemmo in silenzio la strada del ritorno, che era tanto mesta e triste quanto gioiosa e felice lo era stata quella dell’andata. Ero adirato con me stesso, ma non sapevo cosa rimproverarmi. Mentre rimuginavo sulla mia incapacità e continuavo a dirmi che ci doveva essere pur un modo, dovemmo passare attraverso uno stretto e ripido passaggio che dava l’accesso al noccioleto. Tenendo la brocca un manico ciascuno, fummo costretti a spingerla in avanti ed ad appoggiarla su un piccolo pianoro laterale. Lei davanti a me si fermò un attimo a riprender fiato ed io, come ad aiutarla a salire l’ultimo tratto del passaggio, le misi una mano sul sedere e dolcemente abbozzai una spinta. Per un po’ non si mosse fingendo un attimo di riposo e si lasciò carezzare, ma quando feci scivolare la mano tra le cosce che il corto vestito non copriva, balzò in avanti ridendo. ‒ Adesso non più! ‒ esclamò fuggendo divertita ed io capii che ormai non c’era più nulla da fare. Giuliva raggiunse la compagnia lasciandomi di sasso in quello stretto budello, a meditare. Non ebbi più una simile occasione e negli anni successivi, per quanto rimanesse viva una reciproca simpatia, non accadde mai nulla.

La raccolta delle nocciole, come degli altri prodotti della terra, veniva effettuata dai proprietari o dagli affittuari dei terreni con l’ausilio di lavoranti giornalieri che il più delle volte possedevano solo la forza delle proprie braccia. Questa condizione che accomunava la gran parte degli abitanti del paese disegnava lo scenario di una mobilità lavorativa estrema, per la quale tutti si adattavano a fare ogni cosa ed erano disposti a lavorare oggi qui, domani là, per evitare di stare con le mani in mano. Il non lavorare era una condizione umiliante, che intristiva e abbrutiva chi la viveva, anche perché la responsabilità del non lavoro era del disoccupato e non veniva scaricata sull’incapacità e sull’inefficienza di un potere centrale che in quelle zone era stato ed era ancora assente. Per contro ogni giornata lavorata era un pasto in più nella cattiva stagione, un ulteriore esperienza da far valere, una minor vergogna nei confronti di chi era riuscito a conquistarsi un’occupazione stabile. Chi restava inoperoso pagava oltre che un prezzo economico un ben più pesante prezzo sociale. La gente mal sopportava i disoccupati, anche se la colpa della forzata inattività non era sicuramente loro. All’iniziale biasimo seguiva il disprezzo e se questa condizione diventava cronica l’individuo veniva etichettato come sfaccendato o bighellone, ed emarginato. Ricordavo il cupo avvilimento di coloro che dalla mattina presto sino al tramonto vagavano alla ricerca di un lavoro, pur che fosse, che giungevano a umiliarsi per una mezza giornata, che disperatamente tentavano di evitare l’ingranaggio perverso che li avrebbe inclusi del novero dei nullafacenti oltre che nullatenenti. Era un arrampicarsi sugli specchi e chi non aveva qualche numero soccombeva. E avere qualche numero non significava essere istruiti o possedere una specifica competenza, il più delle volte aveva il valore di capacità di adattamento, di disponibilità, d’iniziativa, d’inventiva, doti che a molti belviesi non mancavano.

Ricordavo zia Fifa, che possedendo una macchina da cucire, anticipando di cinquanta anni le attuali teorie economiche, la affittava con l’operatore, lei stessa, a chi ne avesse bisogno ad un tanto all’ora. Anch’io avevo frequentato quella casa, dove un amaretto per noi bambini non mancava mai.

Oppure Tia Fida (zia Fida). Era costei una donna piccola e minuta che metteva a disposizione il forno a chi doveva cuocere il pane. Ogni dieci mustazzos (un pane tipico del luogo) cotti uno restava a lei. La sua casa aveva la struttura delle più antiche case sarde, un unico ambiente con una piccola finestra, su foxile (la superficie di pietra sulla quale si accendeva il fuoco) al centro della stanza e un buco nel soffitto per far uscire il fumo. In quel luogo regnava una penombra che ben si adattava ai vestiti neri che la maggior parte delle donne che andavano a cuocere il pane e Tia Fida portavano. Capitato un paio di volte con Severa in quella casa, avevo riportato una tale lugubre impressione da non desiderare di metterci più piede.

Un’altra donna, zia Eleonora, la signorina di Belvì per antonomasia, alta, magra, di elegante portamento, pur giovane aveva impiantato e gestito, per qualche anno, un mulino per macinare il grano. Poi si era dedicata alla realizzazione di costumi, ricami e merletti organizzando una specie di cooperativa del cucito dove lavoravano le ragazze del paese. Divenuta donna adulta aveva messo in piedi un sistema di distribuzione porta a porta di novità e di modernità cittadine.

Mi resi conto di far riferimento solo a donne e sorridendo scartai l’ipotesi che fossero il mio tema prediletto perché avevo un debole nei loro confronti. In realtà degli uomini belviesi poco ricordavo e quindi altrettanto poco avevo da dire. Il fatto era che le donne belviesi pur fedeli alla tradizione della famiglia matriarcale, avevano sopravanzato gli uomini del paese in intraprendenza e in fantasia sin da quando avevano dovuto fronteggiare, correvano gli anni che vanno dal 1880 al 1883, da sole le necessità e le esigenze di un grande cantiere, tutto di uomini, che costruiva la strada ferrata e una galleria di circa un chilometro nei pressi del paese, galleria con la volta tutta in pietra e realizzata interamente a mano. Un’impresa epica! Si era aggiudicata l’esecuzione delle opere un’azienda di costruzioni piemontese che aveva approntato all’uopo un accampamento a qualche chilometro dal paese per quasi duemila uomini. Duemila uomini! Concentrati in una vallata sulla quale si affacciavano quattro paesi che di uomini ne riuscivano a mettere tutti insieme non più di mille. E nella stagione estiva quando le greggi rientravano dai pascoli della pianura. Questa enorme massa di lavoranti riversò sul paese la naturale necessità di svago e di divertimento, come pure quella di contatti umani, un poco per non avvertire la nostalgia o per non sentirsi dei sepolti vivi in un angolo così sperduto della nazione. Quel formidabile impatto, che poteva stravolgere tutte le tradizioni, le abitudini, i costumi, fu ben assorbito soprattutto dalle donne di Belvì (gli uomini prevalentemente pastori soggiornavano in paese solo per qualche mese all’anno). Da semplici donne di casa seppero trasformarsi in imprenditrici all’altezza della situazione. Ci fu chi adattò la propria casa ad albergo, chi si dedicò a redditizie attività commerciali, chi ristrutturò la propria cantina per farla divenire un luogo di ritrovo, e chi organizzò il divertimento per tutti quegli uomini. Seppero soddisfare ogni necessità di quella folta schiera e nel contempo approfittarono della conoscenza di una cultura tanto distante dalla loro per apprenderne le cose migliori e travasarle nella propria. Una grande operazione culturale che catapultò la gente di Belvì dal medioevo all’età moderna e che produsse copiosi frutti (tra i quali diversi bimbi biondi con gli occhi chiari).

Un rumore proveniente dalla strada mi distrasse. Mi voltai e il mio sguardo scivolò oltre i vetri della piccola finestra che guardava verso la piazza. Non riuscii a distinguere un gran che, ma in compenso, quasi fosse necessario completare il percorso a ritroso della mia memoria, altre immagini della mia infanzia cominciarono a sfilare sempre più rapide davanti ai miei occhi. Mi rividi a raddrizzare i chiodi storti davanti l’uscio della cantina. O a giocare con le maschere ricavate dalle zucche, dentro le quali la notte si metteva una candela, per spaventare i più piccoli. Mi sovvenne la caduta di mio fratellino nel braciere. Il pantaloncino di lana aveva preso fuoco e si era ustionato le natiche, tante bolle da non potersi sedere per più di un mese. Mi sembrò di sentire la voce di zia Fannì, sorellastra maggiore di mia madre, che apostrofava, lo faceva da una vita, zio Ezechiele, il marito, graduato dell’esercito in pensione. Quando conobbi quella coppia erano già anziani e avevano tutti i difetti delle persone di quell’età. Dopo aver allevato e sistemato quattro figli, tutti avevano preso una laurea, non si sopportavano più. Zio Ezechiele fumava e a mia zia dava fastidio il fumo. Se lui apriva la finestra per non farle sentire il fumo lei sentiva freddo. Quando camminava in casa, sui tavolati in legno, faceva troppo rumore e a zia Fannì dava fastidio il rumore. Se zio Ezechiele guardava la televisione, erano fra i pochi a possederla, zia Fannì incominciava a sbraitare perché lo vedeva distratto dalle incombenze domestiche (tutte sulle spalle di lui). Se capitava poi che vi fosse qualche spettacolo leggero con esibizione di ballerine allora lei cominciava a recitare il rosario girando intorno al tavolo da pranzo e imprecando contro le sconcezze che, a suo dire, avrebbero portato all’inferno tutti gli uomini.

Pochi frequentavano quella casa, per timore di incorrere nel sarcasmo di zia Fannì, anche se la presenza del televisore era un polo di attrazione notevole. I più per vederla, la televisione, andavano nel salone della casa parrocchiale che il parroco, don Fadda, aveva attrezzato all’uopo. Preferiva avere sotto controllo i suoi parrocchiani piuttosto che saperli nelle bettole o al bar. Lo stesso don Fadda prima dell’avvento della televisione aveva impiantato una compagnia teatrale che si esibiva nel teatrino situato nella parte posteriore della chiesa. Un po’ tutti avevano almeno una volta recitato non smentendo una tradizione che voleva gli abitanti del paese estroversi, burloni e giocosi.

Mi sembrò veder passare curvo sotto il peso dei suoi pensieri il signor Liberato, che tutti chiamavano Bellallu. Aveva costui una drogheria e mi capitava qualche volta di andarvi per acquisti richiesti da mio padre. Un pomeriggio dovevo comprare dei chiodini piccoli e avevo trovato il negozio chiuso. Sapendo che vi abitava sopra, stando in strada, cominciai a chiamare a voce alta: ‒ Bellallu, Bellallu ‒. Non ricevendo risposta, certo, vista l’ora, della sua presenza in casa, presi a gridare: ‒ Bellallu, Bellallu ‒. Quando questi venne fuori era inferocito e minaccioso, tanto che mi tenni lontano. ‒ Ite olese? (Cosa vuoi?) ‒ mi chiese stizzito. ‒ Chiodi ‒ risposi tenendomi ben alla larga. Avevo l’idea che tanta stizza derivasse dal fatto di averlo disturbato, magari interrompendogli il sonno. ‒ Poite mi zerriasa Bellallu? (Perché mi chiami Bellallu?)

Si rivolse a me un poco più calmo avendo forse capito.

‒ Perché come ti chiami? ‒ risposi.

‒ Mi chiamo Liberato ‒ e quasi gli scappò da ridere.

‒ Ah, ‒ feci entrando con lui nel negozio ‒ non lo sapevo. Io sapevo che tutti ti chiamano Bellallu.

‒ Ancora lo ripeti? ‒ e mi guardò torvo mentre mi serviva.

‒ Signor Liberato va bene? ‒ chiesi. Tanto poco aduso a sentirsi chiamare così mi guardò attraverso le lenti spesse di un occhiale che non migliorava di molto la sua vista e sorrise.

‒ Chiamami come vuoi ‒ disse. ‒ Ma non stare a gridarlo per la strada.

Per la facilità che ho sempre avuto nel capire le cose semplici solo dopo qualche anno scoprii che quel Bellallu era il suo soprannome e che non ne andava certo fiero.

A Belvì tutti avevano un soprannome generato da qualche caratteristica fisica, da qualche comportamento od atteggiamento inconsueto. Della gran parte non se ne ricordava più il nesso. Sabatteri, Zelpe, Kaliu, Giudeu, Su espe, Su lande, Squalledda, Macchinetta, ci si conosceva così, il nome vero non contava o contava poco.

Osservai la piazza e vidi che si era riempita, come in un giorno di festa, di tutti coloro che avevo conosciuto in quei primi anni della mia vita. Ricordavo più i volti che i nomi. Il ricco imprenditore proprietario di una delle poche auto che circolavano in paese che abitava la casa la casa più sontuosa, il barista che aveva sposato la ragazza di cui era innamorato dopo averla rapita, il lattaio, magro come un chiodo che arrotondava i magri guadagni andando a vendere noci e nocciole durante le feste nei paesi vicini, il fabbro che aiutavo nella sua officina agitando il mantice per riscaldare le barre di ferro, il falegname che ci faceva le ruote di legno per i carrucci, e con loro tanti altri. Che fossero ancora vivi o già morti non aveva importanza. Erano tutti lì immobili, composti, seri, un po’ grigi, e mi guardavano quasi volessero comunicarmi qualcosa. Ma non parlavano. Non riuscivo a capire quale messaggio volessero darmi. Mi domandai cosa significasse quella loro presenza. Ma non trovavo risposta.

‒ Come va il tuo lavoro ‒ interruppe quell’immagine zia Tana, e a me sembrò che avesse seguito il filo dei miei pensieri.

‒ Bene ‒ tagliai corto. In realtà quella risposta laconica voleva evitare un approfondimento che in quel momento non gradivo.

‒ Mi hanno detto che sei bravo ‒ continuò lei imperterrita.

‒ E chi te l’ha detto? ‒ domandai curioso.

‒ Uno di paese. Ma da come me l’ha detto ho capito che non era molto contento.

‒ Perché?

‒ Perché la gente stupida è invidiosa. Qui a Belvì ce ne sono molti e chi me l’ha detto era uno di loro. Tu lo sapevi che la vostra famiglia non ha mai goduto delle simpatie dei belviesi?

‒ Mi pare di ricordare, perché papà quando era sindaco…

‒ Per quello ed anche per altro.

‒ Quale altro?

‒ Il fatto che tuo padre fosse un forestiero, per esempio. E poi aveva sposato tua madre e c’era chi la voleva.

‒ Non mi paiono motivi sufficienti.

‒ A te possono sembrare cose da nulla, ma per gente piccola, non lo sono!

‒ Non capisco ‒ affermai mentendo palesemente. Avevo conosciuto tanta piccola gente che ad avere cento lire per ogni “Per il momento grazie”, tipica espressione di costoro, sarei stato milionario.

‒ C’è poco da capire. Lo sai meglio di me quante poche persone oggi meritano attenzione. Di tutte le altre non ti devi interessare. Tu basta che sappia chi è importante nella tua vita e sei a posto.

‒ Perché mi dici questo? ‒ domandai sorpreso che avesse colto nel segno, che avesse messo a fuoco con pochi tratti il problema che mi assillava in quel momento della mia vita.

‒ Perché uno deve sapere, per vivere bene, solo due cose. Con chi vuole vivere e che cosa vuole da loro.

‒ E la ricerca della verità, della conoscenza, l’ampliarsi dell’orizzonte, lo spirito, l’anima, Dio? Quanto sono importanti?

‒ A queste domande non so rispondere, ma in tanti anni ho capito che tu, e tu per dire ogni altra persona, hai bisogno di pochi affetti sicuri e di qualcuno che ti capisca. Il resto cosa conta? Fogu alluttu in logu pitticcu po non intennere frioso (Un fuoco acceso in un luogo piccolo per non sentire freddo).

‒ Vuoi dire che una piccola stanza illuminata da una fiamma sempre viva è ciò che debbo cercare?

‒ Puoi cercare per il mondo tutto quello che vuoi ma solo in quella piccola stanza ti potrai sentir bene ‒ sentenziò. Poi rassettò con scarni gesti il fuoco e stette immobile come a sfidare il tempo.

Che avesse ragione lei? Vero era che poche idee chiare possono ben sostituire complicate e farraginose elucubrazioni! Ma poteva tanta semplicità accordarsi con un sistema così sofisticato come quello del mio mondo di pensiero, peraltro tanto faticosamente costruito? Mi accorsi del tentativo che stavo mettendo in opera per invalidare quella indiscutibile verità, ma non le sapevo contrapporre nulla di efficace. Quell’affermazione tanto netta era in grado di spazzar via ogni sofismo, ogni giustificazione, ogni compromesso, ogni accomodamento, perché possedeva, sì possedeva, mi fu subito evidente, la perentorietà dell’assoluto.

L’assoluto!

Ogni tanto nella mia vita l’avevo incontrato, ma per quanto attratto, l’avevo garbatamente evitato. Il mio personale corpus filosofico, la mia teoria sulla vita e sul mondo non lo comprendeva.

Pensandoci non capivo come ciò fosse potuto avvenire. Una rimozione quasi completa. Per quale motivo? In realtà non l’avevo mai preso seriamente in esame e gli avevo per giunta attribuito un significato improprio connotato da una limitatezza che il termine ed il concetto non possedevano. Anzi era tutto il contrario! Trovai strano l’aver considerato l’assoluto come un limite! Probabilmente una scelta funzionale. Mah! Di certo v’era che se il mio obiettivo preminente era raggiungere e conquistare la più completa libertà come era stato possibile che mi mancasse il concetto d’assoluto! Che nella sua assenza di vincoli, di limiti, di condizionamenti, rappresenta la vera libertà. Chi agisce infatti in modo assoluto si comporta da padrone dei suoi atti e non è soggetto altri che a se stesso. Questa la definizione di assoluto.

Personalmente ero stato sempre fautore della relatività e mi ero talora accalorato nell’affermare e nel sostenere che nulla è mai definitivo, che nessuna posizione deve essere considerata stabile, che il vero equilibrio è quello che continuamente si raggiunge, o altri enunciati di questo genere! Oh, non che questa scelta mi avesse offerto una vita grama e priva di gratificazioni, anzi! Però avevo notato in qualche occasione la tendenza di alcuni pensieri a scivolare verso l’assoluto nel tentativo di liberarsi di tutti i vincoli. Confortato dal fatto che non potevo lamentarmi dei risultati, non mi ero preoccupato di approfondire. Ma avvertivo come giunto il momento e l’affermazione di zia Tana mi costringeva a riflettere e a mettere in dubbio la gran parte delle mie precedenti certezze. Con le quali, mi ripetevo, avevo ben vissuto ottenendo quello che desideravo. Mi sentivo a disagio, cercavo una via di fuga. Provai con la teoria dell’orizzonte. La condizione che l’orizzonte debba sempre potersi ampliare e non avere alcun limite come ci stava con l’assoluto anch’esso senza limiti? Mi venne in mente l’immagine di un instancabile maratoneta, in continuo moto su e giù lungo la linea dell’orizzonte, mai pago della distanza percorsa, incapace di sostare nel medesimo punto per più di qualche istante. E costui potevo essere io, assertore del relativo. Per contro vedevo come chi avendo fatto dell’assoluto il suo verbo, aveva scelto un’unica fetta di orizzonte, e convinto della sua opzione in quel luogo lietamente passeggiava, profondendo le sue energie unicamente per godere dei frutti di quella decisione.

L’assoluto come scelta di una parte dell’orizzonte disinteressandosi di tutto ciò che ne restava fuori, questo era il senso dell’affermazione di zia Tana! Questa la vera libertà? Scegliere di viverne solo una parte con la consapevolezza che tutto il resto del mondo non è in grado di offrirci nulla di più di quanto già non possediamo? Era questo ciò che volevano dirmi tutti quei personaggi che si erano radunati in piazza? A pensarci bene, per quanto la loro vita mi potesse sembrare insignificante, non degna di nota, in realtà così loro l’avevano voluta, per loro scelta responsabile, senza pretendere di più da se stessi. Non avevano desiderato volare e non avevano volato. Se lo avessero voluto, fino a prova contraria, avrebbero potuto mutare quella loro condizione. Chi aveva desiderato un radicale cambiamento era emigrato, ma assieme ai molti vantaggi aveva conosciuto il rovescio della medaglia. A chi era rimasto nessuno poteva contestare nulla e tantomeno il fatto di non aver scelto. E ammesso che non avessero scelto il meglio questo poco importava. L’importante era aver scelto. Una vita, quella, e basta. Ed era proprio questo che non sapevo condividere e che, non avevo quasi il coraggio di ammetterlo, mi atterriva. Una sola vita! Come poteva, pensavo con presunzione, una grande intelligenza essere confinata in un ambito tanto ristretto?

Questi interrogativi avevano restituito il moto al mio mondo di pensiero. E come in una reazione a catena ogni idea, ogni convincimento, ogni pensiero, finanche ogni parola, tentava di trovare una nuova collocazione, una riclassificazione, una diversa prospettiva, una nuova relazione con tutto il resto. Di certo si stavano contrapponendo visioni differenti del mondo e della vita ed era evidente che ne sarebbero nati violenti contrasti. Ne avvertivo le avvisaglie nell’affiorare di un’irritazione viscerale che si sarebbe diffusa a ciò che mi circondava ed avrebbe coinvolto anche chi mi era vicino.

Ero conscio che mi attendeva un’elaborazione difficile, lunga, laboriosa. Ma oramai era cominciata e, sapevo, non si sarebbe fermata. Non avevo idea di quanto tempo avrei avuto bisogno né dove sarei andato a parare, ma mi consolava la consapevolezza di aver rimesso in moto un meccanismo che, se avesse resistito alla brusca accelerazione, mi avrebbe dato uno slancio notevole. Avevo avviato un processo di rinnovamento che il cuore desiderava, ma che avrebbe trovato molte resistenze nella mente. Mi accompagnava il vuoto di chi sta per perdere le proprie certezze, il dubbio di chi sta per incamminarsi su una nuova strada, l’angoscia di chi non vede da subito la meta, l’irritazione dell’indolenza, ma nel contempo avvertivo nelle viscere il timido sprigionarsi di una grande energia che per tanto tempo era stata sopita. Ma non ero ancora certo di volere che emergesse.

Ero approdato in quel minuscolo rifugio, la casa di zia Tana, in un freddo pomeriggio alla ricerca di un nuovo e più ampio orizzonte, e quella piccola stanza, osservatorio privilegiato sulla piazza e sulla vita del paese oltre che sul mio animo, era stata, me ne rendevo conto, il luogo adatto per attivare il mio travaglio. L’essenzialità delle cose, il calore e l’intimità di quel luogo, la presenza di zia Tana e ancor più le sue parole, avevano facilitato lo svolgersi, l’intricarsi ed il districarsi dei miei pensieri. In quella quiete e in quel raccolto silenzio, davanti ai miei occhi erano sfilate, senza che le richiamassi volontariamente, le immagini della mia prima infanzia facendo riemergere le emozioni, i sentimenti, le idee, gli accadimenti, i personaggi della vita del paese, e poi la campagna, il bosco, i profumi, la gioia, la spensieratezza, la luce solare di quel periodo felice.

Questo andare a ritroso nel tempo mi aveva fatto capire come proprio nelle radici dovevo cercare la mia vera natura, i miei desideri profondi, il senso della mia vita. E non v’era dubbio che le mie radici erano lì, il mio cuore era lì, i miei sogni erano lì, la mia vita era lì. Ed era lì che avrei trovato le risposte. E come un nodo intricato si scioglie, così, con un groppo alla gola, sentivo il mio animo liberarsi ed il nuovo orizzonte aprirsi al mio cuore. Sì perché ogni nuovo orizzonte deve prima aprirsi al cuore che alla mente e non viceversa.

‒ Beh! È ora di andare ‒ dissi a zia Tana.

‒ Vuoi ancora un poco di caffè? ‒ chiese lei.

‒ No, grazie. Se ne prendo un’altro finisce che non dormo per due giorni. Lo fai troppo carico.

‒ Parti subito o ti trattieni ancora in paese?

‒ Penso di rientrare in città stasera ‒ risposi levandomi in piedi e avviandomi all’uscio.

‒ Salutami tua madre ‒ disse avvicinandosi e arrampicandosi su una mia spalla per darmi un bacio sulla guancia, che facilitai incurvandomi un poco.

‒ E non ti preoccupare, che le cose si aggiustano per conto loro ‒ aggiunse rassicurante. ‒ Basta che tu lo voglia.

‒ A presto ‒ le sorrisi convinto che non avrei mai potuto scoprire la vera essenza di quell’ultima sua frase.

‒ Sì, a presto ‒ rispose stringendomi forte il braccio mentre uscivo da quella casa con un gesto che valeva più di ogni parola e che mi avrebbe accompagnato oltre quell’uscio.

Mi ritrovai in piazza. Non c’era nessuno considerata l’ora tarda. L’aria era fredda e pungente. Alzai gli occhi verso il cielo, era completamente terso. Un tappeto di stelle rischiarava la volta buia. Grandi, piccole, tremolanti, più le osservavo più avvertivo quello spazio incombente, misterioso, attraente. Per un attimo, come facevo da bambino, provai a penetrare quell’immensità, tentai di spingermi oltre le grandi stelle verso le piccole e ancor più dietro, ma per quanti spazi conquistassi mi rendevo conto di non aver percorso che una distanza piccolissima. E per arrivare al limite, anche solo col pensiero, forse non sarebbe bastata un’intera vita. Pensai al corpo ostacolo alla conquista di quell’immensità e alla morte quale lasciapassare per il vero assoluto. Un brivido di freddo interruppe sul nascer quel discorso tanto complicato ed istintivamente portai la mano alla punta del naso. La toccai, era congelata, insensibile. Mi venne da sorridere. Mi sentivo bene, come rigenerato, ricaricato. E sì che poco prima il disagio e l’irritazione l’avevano fatta da padroni.

Feci qualche passo e arrivai sino alla muraglia. Un nero fitto ammantava la vallata e si potevano scorgere solo i profili dei monti all’orizzonte. Tenni fermo lo sguardo in quel buio. Non riuscivo a vedere nulla, ma all’improvviso un’ondata di sensazioni intense, forti, calde, mi pervase. Come d’incanto i miei sensi poterono sentire, percepire, rimirare, assaporare ciò che il buio e il freddo tenevano gelosamente nascosto. Udii distintamente ogni rumore di quei luoghi, dal campanaccio sordo delle vacche a quello tintinnante delle pecore, dal gracidare delle rane al fischio del merlo, fino a sentire anche l’inarrestabile procedere delle formiche intente alla loro perenne fatica. Ed anche i rintocchi dell’Ave Maria alla sera. Potei avvertire il liscio contatto dei sassi levigati del fiume sotto la pianta dei miei piedi e la frescura di quell’acqua gorgogliante. Mille volte ne avevo risalito le anse con le scarpe in mano ed i pantaloni arrotolati sopra le ginocchia alla scoperta del passaggio verso l’Eden desiderato. Rividi e ripercorsi la vecchia strada di campagna che tante volte avevo calpestato e che conduceva a un piccolo bosco di castagno di nostra proprietà. Solo adesso mi capacitavo di quanto fosse incredibilmente bella. La strada s’inerpicava scavata e segnata nello scisto dalle ruote dei carri e dai passi che l’avevano infinite volte calpestata. In alcuni punti le fronde degli alberi e i tralci rigogliosi del rovo e dell’edera davano origine a una volta attraverso la quale filtravano timidi i raggi del sole. Mi ritrovai a rotolare, come facevamo quando si andava in giro col gruppo, sui prati muschiati dei boschi di nocciolo dove si poteva camminare anche scalzi sicuri di non pungersi con alcunché. Disteso su quel manto, tante volte avevo ammirato l’azzurro del cielo che si intravvedeva tra il fitto fogliame dei noccioli. E quella prospettiva aveva di certo alimentato in me l’aspirazione alla libertà e la gioia di vivere. Un alito di vento mi portò i profumi, le fragranze, gli odori dell’intera vallata. Mi erano tutti familiari e raccontavano la stagione, gli accadimenti, le consuetudini, la campagna, il bosco, gli animali, la gente di quel luogo e tutta la loro vita.

Mi accorsi di aver interiorizzato quella realtà in tale profondità nel mio animo da non sapere dove giungevano le sue radici.

Voltandomi per andar via mi sentii assalire da una viva commozione e per qualche istante potei sentirmi parte integrante di quella realtà incontaminata e vibrare con essa. Nella mia mente si accese improvvisa una luce e mi fu chiaro come quel sentimento di appartenenza non si sarebbe potuto generare senza la più assoluta trasparenza dell’anima. E questa assoluta trasparenza era la meta alla quale volevo, dovevo tendere e che, ne ero certo, un giorno o l’altro avrei raggiunta.

 

 

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